Ecco la terza “puntata” della riflessione che Luca Pesenti e Giovanni Scansani hanno dedicato all’evoluzione dello smart working. Quello che doveva essere e quello che diventerà.
Il lockdown che inventa il lavoro
Il lockdown ha generato un mostro, un piccolo “Frankenstein”, per riprendere il riferimento al film di Mel Brooks. “Il compimento di una rivoluzione che avrebbe per sempre cambiato il lavoro e le nostre vite”. “Si può fareee!”, è il grido liberatorio che si alza in queste settimane. Proprio come accadde al grande Gene Wilder nel film di cui sopra. Perchè ciò che la tecnologia permette, va sempre bene.
La rivoluzione dello smart working
Da quegli apostoli dello smart working, hanno preso le distanze alcuni tra i commentatori più attenti, distinguendo tra un fenomeno di prevenzione epidemiologica e l’illusione dell’avverarsi di una svolta epocale nell’organizzazione delle imprese e del lavoro. Ricordiamo qui ad esempio Carlo Ratti del MIT, che in un articolo pubblicato sul “Corriere Economia”,che ha opportunamente richiamato il ruolo fondamentale che rivestono i cosiddetti “legami deboli”, ovvero le relazioni interpersonali e fisiche, nel determinare i processi di innovazione. Oppure possono essere richiamati, i ripetuti interventi del giuslavorista Pietro Ichino, nel segnalare l’interpretazione burocratica data, nello “stato d’emergenza”. Uno smartworking che trasformandosi in diritto perde le caratteristiche fiduciarie che dovrebbero contraddistinguerlo (è il rischio della “giuridificazione”).
Donne e smart working
In mezzo a questo dibattito, stanno i milioni di lavoratori e lavoratrici, che hanno sperimentato (e ancora sperimentano) questa modalità di lavoro del tutto eccezionale, soprattutto le lavoratrici. Per le donne, soprattutto per quelle che sono anche mogli, mamme e caregiver informali di qualche familiare anziano non autosufficiente, questo periodo ha conciso con un mare di fatiche e fonti stressogene (da condividere con i mariti, a loro volta in casa e da lì al lavoro anch’essi). Un piccolo “inferno domestico”, fatto di scuole e di strutture chiuse, di assistenza socio-sanitaria spesso interrotta, di spazi fisici non sempre adeguati.
Non solo lavoro e stress
E’ iniziato, così, quello che per molti degli otto milioni di “remotizzati” si è trasformato in un percorso a ostacoli online. La scuola, il lavoro e quando è andata bene anche l’assistenza si sono materializzati dentro un solo device, spesso il proprio pc personale.
Nel bel mezzo di una videocall, magari qualcuno accende la PlayStation in modalità condivisa, o Netflix, e così tutto rallenta o s’interrompe. Un urlo, si spegne. Ci si ricollega, ma cosa dire al capo? Beh… ad esempio di darci una connessione decente, se non anche un pc più potente. Al di là di tutto ciò, ricerche segnalano, come l’incastro tra lavoro e famiglia sia stato, per molti, un concentrato di fatiche e di stress.
Tuttavia, invece di difendere lo smartworking sottolineandone – anche fino alla nausea – la differenza abissale che intercorre tra la sua corretta adozione e la devastante realtà venutasi a creare, abbiamo assistito allo sventolare di mille bandiere annuncianti il compimento di una svolta epocale. Fino alla classica frase: “Nulla sarà come prima!”; presto seguita dall’immancabile: “Non si torna più indietro”.
SW è lavoro totale, non solo svago
Nella grande maggioranza dei casi non si è certamente trattato di una vacanza. Neppure per buona parte dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, benchè sia probabilmente ragionevole pensare (come ha fatto il Giudice Emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese dalle pagine del Sole24Ore), che in alcuni casi la diffusione dello SW in un ambiente privo di ogni controllo sulle performance sia verosimilmente equivalso ad un periodo di almeno temporanea riduzione delle mansioni.
Certamente però, nel lavoro privato e in buona parte di quello pubblico (e nel “privato” di ciascuno), tanto stress, ben poco o nessun work-life balance. Semmai tanto impegno per tenere in vita il lavoro, l’azienda, i servizi erogati, le relazioni.
Tutti a lavorare
Nessuna vacanza, d’accordo: ma probabilmente nemmeno quel miglioramento della produttività che alcune ricerche ed un buon numero di interviste che hanno coinvolto gli HR hanno sin qui sventolato, ma che a nostro avviso (anche alla luce dei risultati di ricerche che hanno invece coinvolto i lavoratori e le lavoratrici) avrebbe a dir poco del miracoloso (fatte salve, come sempre, le singole eccezioni).
Il Sindaco di Milano (ma ciò sarà nei pensieri di tutti i suoi colleghi) ha inteso anche ricordare che se tutti lavorassero frequentemente in SW l’economia cittadina (fatta di relazionalità, di incontri, di scambi “dal vivo” tra gente viva: proprio come il lavoro negli uffici e nelle fabbriche prima della pandemia) inesorabilmente morirebbe.
Un futura incerto
Che cosa accadrà al commercio, al mercato immobiliare, al mercato del lavoro di Milano e degli altri grandi centri metropolitani?
Dobbiamo pensare a un futuro esclusivamente turistico, senza più city users per motivi lavorativi e a ranghi ridotti anche dal punto di vista dei residenti (perchè uno smart working di massa inevitabilmente spingerebbe molti a trasferirsi altrove)? E che cosa accadrà a chi oggi vaticina un futuro di south working, ovvero di lavoratori e lavoratrici impiegate in aziende del Nord, ma stabilmente residenti nelle città del Sud Italia grazie ancora una volta allo smart working? Quanto ci metteranno le aziende a pensare che, tutto sommato, lontananza per lontananza, sarà per loro molto più conveniente delocalizzare il lavoro d’ufficio assumendo qualcuno a Mumbai o a New Dehli?
La difesa che conta è quella della bontà innovativa di questa modalità organizzativa che presuppone un potente impegno sul fronte del cambiamento dell’approccio, secondo logiche partecipative e snelle che presuppongono l’adozione di un mindset completamente diverso.
Per concludere, lo sw è puro lavoro
In conclusione la difesa dello SW, avrebbe dovuto riguardare coloro cui va il merito di averlo studiato, promosso e diffuso (ante Covid-19), evitando di confonderlo con una condizione drammatica, eccezionale, che tutti ci auguriamo di non rivivere mai più. Così come avrebbe dovuto spingere i più ad assumere un approccio realista, positivo e responsabile. Assumendosi la capacità di una rilettura sistemica capace di cogliere le inevitabili (e potenzialmente disruptive) esternalità negative di un repentino processo di remotizzazione di massa del lavoro.
I poli dello smart working
Ecco allora (tornando alla scoperta di Gene Wilder in Frankenstein jr) la necessità che “i poli” dello SW siano riportati “da positivo a negativo e da negativo a positivo” per mettere in cortocircuito la lettura sbagliata che se n’è data e ridisegnare, con obiettività, la corretta dimensione del fenomeno e soprattutto sostenerne lo sviluppo futuro che è certamente auspicabile nella misura in cui sia anche umanisticamente sostenibile (umanamente lo è certamente).