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HUMAN in scena la storia al Teatro Massimo

A Cagliari dall’8 all’11 dicembre arriva lo spettacolo Human

Cos’è l’Europa? Cosa hanno significato, nel corso dei millenni e dei secoli, le migrazioni? Uno spettacolo in forma di oratorio, tra negazione e affermazione del concetto di umanità, in scena dall’8 all’11 dicembre al Teatro Massimo di Cagliari

La prima ispirazione è stata l’Eneide, il poema di Virgilio che celebra la nascita dell’impero romano da un popolo di profughi: in una lectio magistralis tenuta nell’aula magna dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, Marco Baliani è partito dal mito per interrogarsi e interrogarci sul senso profondo del migrare.

Poi l’incontro con Lella Costa e la reminescenza di un altro mito, ancora più folgorante nella sua valenza simbolica e profetica: Ero e Leandro, i due amanti che vivevano sulle rive opposte del fiume Ellesponto.

Al centro della riflessione lo spaesamento comune, quell’andare incerto di tutti quanti gli human beings in questo tempo fuori squadra.

Così Lella Costa e Marco Baliani raccontano HUMAN, “odissea ribaltata”:

“Il titolo lo abbiamo trovato, la parola HUMAN sbarrata da una linea nera che l’attraversa, come a significare la presenza dell’umano e al tempo stesso la sua possibile negazione. Umano  è il corpo  nella sua integrità fisica e psichica, nella sua individualità.

Quando questa integrità viene soppressa, o annullata con la violenza, si precipita nel disumano. Umani sono i sentimenti, le emozioni, le idee, le relazioni, i diritti.

Li abbiamo sognati eterni e universali: dobbiamo prendere atto – con dolore, con smarrimento – che non lo sono. La storia del nostro novecento e ancora le vicende di questo primo millennio ci dicono che le intolleranze e le  persecuzioni, individuali o di massa, nei confronti degli  inermi e degli innocenti, continuano a perpetrarsi  senza sosta.

Con la nostra ricerca teatrale vorremmo insinuarci in quella soglia in cui l’essere umano perde la sua connotazione universale, utilizzare le forme teatrali per indagare quanto sta accadendo in questi ultimi anni, sotto i nostri occhi, nella nostra Europa, intesa non solo come entità geografica, ma come sistema “occidentale” di valori e di idee: i muri che si alzano, i fondamentalismi che avanzano, gli attentati che sconvolgono le città, i profughi che cercano rifugio.

Ma se ci fermassimo qui  sarebbe un altro esempio di cosiddetto teatro civile, e questo  non ci basta: non vogliamo che lo spettatore se ne vada solo più consapevole  e virtuosamente indignato o commosso. Vogliamo spiazzarlo, inquietarlo, turbarlo, assediarlo  di domande. E insieme incantarlo e divertirlo, ché è il nostro mestiere.

E per riuscirci andremo a  indagare teatralmente proprio  quel segno di annullamento, quella linea che sancisce e recide: esplorare (e forse espugnare?) la soglia fatidica che separa l’umano dal disumano, confrontarci  con le parole, svelare  contraddizioni, luoghi comuni, impasse, scoperchiare  conflitti, contraddizioni, ipocrisie, paure indicibili.

Vorremo costruire un teatro spietatamente capace di andare a mettere il dito nella piaga, dove non si dovrebbe, dove sarebbe meglio lasciar correre. E andare a toccare i nervi scoperti della nostra cultura  riguardo alla dicotomia umano/disumano.

Senza rinunciare all’ironia, e perfino all’umorismo: perché forse solo il teatro sa  toccare nodi conflittuali terribili con la leggerezza del sorriso,  la visionarietà delle immagini, la forza della poesia.”

Antonio Marras: costumi come brandelli d’identità

Ho accettato senza riflettere un secondo! Seppure con terrore e spaesamento, ho immediatamente accettato l’invito di Marco Baliani ad occuparmi delle scene e dei costumi dello spettacolo. Per me, nato e cresciuto in Sardegna, un’isola al centro del Mediterraneo, in una posizione che nei secoli l’ha resa teatro di guerre e massacri, violenze e sopraffazioni e pure  crocevia di scambi, incontri e confronti con tante genti, era naturale sentire il mare e sentire di popoli che emigrano. La storia attuale è stata la nostra storia. Una storia di migrazioni, di strazi, di partenze e arrivi, traversate e viaggi, spostamenti solitari e ricongiungimenti familiari. Imprese impossibili all’insegna della disperazione e della speranza, alla spasmodica ricerca di un altrove migliore, una storia di interi paesi abbandonati per forza e per necessità.

Ho pensato a costumi che riflettessero un’immagine dell’identità molto vicina a quella “a brandelli”, a “stracci e toppe” citati dall’antropologo Francesco Remotti.

Ho utilizzato abiti usati, rifiutati, scartati che, come materiale di base, ben sintetizzano il tema della memoria e delle sovrapposizioni culturali, nate dall’incontro con la diversità e con nuovi contesti. Abiti portatori di frammenti di identità, di storie personali e collettive. Storie da riscrivere, reinventare, raccontare attraverso effimeri indumenti.

Il colore che domina è il rosso in due tonalità, più calde, più fredde, dal mattone al bordeaux, dal più acceso al più cupo. Sono tonalità che fanno riferimento al mio “ligazzo rubio”, un vero e proprio oggetto-simbolo per me, carico di significati, di suggestioni, di fascino; il mio filo d’Arianna che guida attraverso il labirinto del mondo e indica la strada; un filo che unisce saldamente, annoda affetti, sentimenti, emozioni, resiste al tempo e all’usura, tiene radicato ciò che parte a ciò che resta. Il colore rosso richiama il sangue, inteso come forza vitale, purificazione, rigenerazione, scorrere di esperienze, movimento, cuore, affetti, sentimenti, calore, protezione, passione.

Così anche la scena è vestita con la stessa modalità dei costumi. Fondale e pavimento sono il risultato di cumuli e accumuli di abiti incastrati, intessuti, stratificati, incrostati, assemblati e sovrapposti. Orde di popoli in fuga, il nuovo medioevo è di nuovo fra noi.

Paolo Fresu: HUMAN in tre movimenti

I.
Ai primi di aprile un piccolo codirosso ha deciso di fare il nido nell’intercapedine tra la finestra e lo scuro in legno del mio studio bolognese. Con tutta la famiglia abbiamo assistito, giorno dopo giorno, alla certosina e per noi emozionante costruzione del nido fino alla deposizione di sei uova tra il verde e l’azzurro e la lunga cova che ha dato la vita a sei piccoli. Crediamo che la mamma sia morta perché qualche giorno fa, dopo un forte temporale, non è più venuta e anche due dei suoi piccoli sono morti. Gli altri quattro li abbiamo portati in casa e messi dentro una scatola di cartone con tutto il nido che è un capolavoro d’ingegneria. Abbiamo provato a tenerli in vita inventandoci un “day hospital” creativo. Il primo giorno bisognava aprirgli il becco per alimentarli con una pinzetta mentre ora non fanno altro che stare con il becco aperto in attesa di cibo. Non tutti riusciranno a sopravvivere purtroppo. Lo sappiamo e per questo Andrea, mio figlio, ha costruito nel giardino un piccolo cimitero degli uccelli dove per ora ha sepolto quelli che, senza mamma e senza cibo, non ce l’hanno fatta. Ognuno ha un nome e una data di nascita e di morte che è ben riportata sulla croce come in qualsiasi camposanto che si rispetti.

II.
Sono a Parigi a pranzo nella Pizzeria Botteli proprio sotto casa, davanti all’arco della Porte Saint Martin. Ordino una napoletana. Mentre sono intento a tagliarla vedo al di là del vetro una famiglia di migranti, ammassata sotto un platano e coperta con un plaid di colore indefinito. I due bambini riescono a sorridere tra loro, la madre ha uno sguardo assente e il padre ha la morte negli occhi. Mi si chiude lo stomaco e non riesco a mangiare. Penso ai nostri codirossi con il becco perennemente aperto in attesa di cibo. Chiedo il conto e domando al cameriere di avvolgermi la pizza ancora calda per portarla via. Esco e la metto nelle mani del padre dei due bambini aggiungendo una banconota nel bicchiere di carta con scritto ‘Starbucks’ che la madre tiene in mano. Salgo a casa e li osservo dalla finestra come fossero i miei codirossi posti nella scatola di cartone. Solo i due bambini mangiano la pizza visibilmente contenti. Provo a fare una foto da lontano e dieci minuti dopo riguardo dalla finestra ma non ci sono più. Andati chissà sotto quale altro platano. Apro il quaderno degli appunti e deposito sul pentagramma la melodia del Requiem di “Human”, lo spettacolo di Marco Baliani e Lella Costa sul tema delle migrazioni nel Mare Nostrum per il quale sto scrivendo le musiche…

III.
Alle sette un Taxi Bleu attende me e Omar Sosa sotto casa. A due metri dal platano che guarda la Pizzeria Botteli. Direzione Gare du Nord per prendere un treno Thalys per la Germania. Eravamo a Parigi per la promozione del nostro EROS e oggi abbiamo un concerto a Colonia in trio con Trilok Gurtu. In stazione entriamo in uno Starbucks per fare colazione. Io ordino un cappuccino imbevibile da 3,50 euro e Omar chiede giusto un bicchiere di acqua calda. Il signore che sta dietro il banco gliene dà uno piccolo e Omar chiede con gentilezza se può averlo più grande. L’altro risponde che non può darglielo. Lo guardo male e chiedo quanto costa un bicchiere di acqua calda. Mi dice non è contemplato nella lista dei prodotti. Anche stavolta vado via senza bere il mio cappuccino ma non so a chi darlo e lo lascio sul tavolo. Intanto penso ai due bambini africani che, con un po’ di fortuna, forse troveranno cibo anche oggi e penso alla madre con un bicchiere sponsorizzato ‘Starbucks’ ma vuoto. E penso anche ai codirossi che domani forse spiccheranno il volo per attraversare quel Mediterraneo libero che è stato la culla dell’intelligenza, della conoscenza e dello scambio.

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