L’artista di Villasor racconta i suoi Lintus e Pintus
E’ un artista fuori dal comune Gigi Porceddu, lo scultore di Villasor dall’anima irrequieta. Racconta spesso di essere affetto da su scraffingiu de s’anima (il prurito dell’anima) che lo spinge ogni giorno a creare, plasmando su creta e pietra i volti dei sardi che ricerca e studia costantemente. Camminando per il suo laboratorio ci si imbatte in opere che richiamano fortemente le caratteristiche della Sardegna, la sua terra madre, e capita sovente di sentirsi colpiti dalla sindrome di Stendhal. Perché i suoi sono lavori di straordinaria bellezza, sculture vive che si animano al nostro sguardo, trasmettendo la stessa energia primordiale che permette al loro demiurgo di crearle. Abbiamo incontrato lo scultore, andando alla scoperta dei suoi sorprendenti Lintus e Pintus.
Sono tanti i progetti a cui lavori costantemente, come nasce il progetto Lintus e Pintus ?
I Lintus e Pintus nascono nella primissima fase della mia vita: ricordo che da bambino non mi piaceva studiare, ma a scuola amavo plasmare il DAS. Rimanevo incantato dai visi della gente brutta e ne andavo alla ricerca cercando di riprodurla. La bruttezza è per me profonda bellezza, soprattutto interiore. Studio la fisiognomica e penso che la vita trasformi le persone, il tempo modella gli esseri umani. Riesco a leggere la storia di una persona osservandone il volto. A me interessa andare alla scoperta dell’interiorità delle persone.
Quanti sono i Lintus e Pintus che hai realizzato?
Siamo polvere e polvere torneremo. Creo e plasmo le mie sculture con l’argilla e la mia arte è metafora della vita. Il lavoro sul progetto Lintu e Pintu mi ha portato a scolpirne circa ottomila e alimenta una profonda ricerca intrapresa nel corso degli anni in tutta la Sardegna. Ho girato per tutta l’Isola in cerca di personaggi, visi e peculiarità della sardità. Ho sempre cercato le persone in ogni luogo, trovando la mia fonte di ispirazione soprattutto nei supermercati, luogo che amo particolarmente. Prediligo cercare i visi tra i loro scaffali e in alcuni trovo volti fenomenali, persone straordinariamente caratteristiche. A Villacidro, per esempio, trovo persone dai tratti somatici fortemente marcati. Il tempo in alcune zone della nostra Isola si è fermato e le persone di quei luoghi mi permettono di ritrovare l’essenza dell’identità nuragica. La Sardegna è famosa nel mondo per la longevità del suo popolo, ma a me questo non interessa. Molte persone in Sardegna hanno delle caratteristiche somatiche molto particolari e io ne vado alla costante ricerca. Ricordo che una volta sono stato a Ussassai e sono rimasto profondamente colpito dai suoi abitanti. Il loro modo di parlare, i loro occhi, la loro imponenza mi hanno richiamato fortemente la memoria dei nostri padri nuragici.
Tu definisci la bruttezza come bellezza. Cosa succede quando torni a casa e riproduci i visi che ti sono rimasti impressi?
Io non uso e non ho mai usato la macchina fotografica: utilizzo solo la mia mente e il mio pensiero. Quando guardo negli occhi le persone, ne memorizzo i volti e riesco a riprodurli grazie alla pratica dell’ipnosi regressiva. Ho dovuto studiare tanto, con l’aiuto di tanti esperti in materia, per affinare questa metodologia e così riesco a richiamare alla mente le persone che incontro e che mi colpiscono. Qualche viso lo ricordo anche a distanza di anni e lo ricorderò per sempre. Tziu Merdeproccu di Samatzai, per esempio, mi colpì fin dal primo momento. Era una bellissima persona, il suo viso mi ha spinto a riprodurlo fin dal primo istante.
Che studi sono stati fatti sulle tue opere?
Ho incontrato tante persone che si sono interessate ai miei lavori. Non tanto tempo fa è venuta a farmi visita una troupe della Rai diretta da Alberto Angela. Lo scopo del mio lavoro è quello di riportare in vita, attraverso la scultura, le persone che sono vissute migliaia di anni fa, nel periodo nuragico della Sardegna. Mai nessuno è riuscito a illustrarci come erano fatti gli uomini appartenenti alla Civiltà nuragica e su di loro abbiamo davvero poche fonti che ci permettano di capire. Lavoro costantemente per immortalare le persone e le espressioni tipiche della nostra isola. Esistono ancora persone portatrici di quella cultura. La mia è una ricerca genetica, non è solo plasmare l’argilla.
Hai mai ritratto delle donne?
Ho scolpito tantissime donne e tra i miei Lintus e Pintus ne posso contare davvero tante. Le donne le ho sempre messe da parte e molte figure di donna le ho accatastate nel mio magazzino. Lo faccio per una questione di pudore. Spesso le donne sono poco propense a farsi ritrarre. Se vado da una donna anziana e le manifesto la mia volontà di ritrarne il viso in terracotta, è probabile che lei non accetti, mentre la reazione degli uomini è spesso differente. Per questo motivo nascondo le donne che ritraggo. Ho scolpito anche molti bambini e voglio aggiungere che per me nei miei Lintus e Pintus sono tanti i “bambini adulti”. Tornando a Tziu Merdeproccu, ho sempre visto in lui un bambino, ho letto nella sua anima. Perché io ritraggo le anime delle persone, e nelle mie sculture è racchiusa la loro essenza. Sono persone che forse non esistono più, sono quelle presenti nell’immaginario della gente.
Come si è evoluto questo progetto nel tempo?
Tecnicamente è rimasto sempre uguale. E’ cambiata la mia velocità nel realizzare le opere. Prima ci mettevo dei giorni, oggi il lavoro è molto più veloce di prima. Fare un ritratto a grandezza naturale richiede comunque del tempo, ma quando sono carico e ho bisogno di esprimermi, libero sempre la mia esigenza espressiva. Porto sempre con me un pezzo di argilla e basta un chiodo, un pezzo di legno o anche il semplice tappo di una biro per lavorare la creta e plasmare volti e anime. Qualche giorno fa ho incontrato dei cacciatori nelle campagne di Villacidro: mi hanno ispirato e li ho ritratti con loro grande sorpresa.
Quanto sei legato alle tue opere e quanto ti è difficile separartene?
Le opere di un artista sono di tutti. Un artista che si rispetti non dovrebbe mai donare le sue creazioni, anche se a me capita sovente di dovermi separare da qualcuna di loro. Faccio un esempio: come la madre è fortemente attaccata al suo bambino, ogni opera che nasce dalle mie mani fa parte di me e mi viene difficile distaccarmene. Sono figlio di un pastore e ricordo bene il rapporto che legava mio padre alle sue pecore, le chiamava ognuna per nome e ogni volta mi chiedevo come facesse. I Lintus e Pintus sono come le pecore di mio padre, li riconosco tutti, uno per uno, sono il mio gregge.
Simone Cavagnino