Al May Mask The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss

Ritorna la rassegna Utopie – tra cinema e paesaggi sonori. Appuntamento sabato 26 gennaio alle ore 21 con la Brigata Stirner che sonorizza il film di Jonathan Weiss

Roberto Belli e Arnaldo Pontis in arte La Brigata Stirner accompagneranno gli ospiti del May Mask in un viaggio musicale dedicato al film di Jonathan Weiss.

The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss, a partire dal suo completamento non è quasi mai stato proiettato. Il regista ha lavorato con risorse molto limitate ed ha dovuto gestire continue interruzioni produttive, a causa della carenza di fondi, che hanno portato lo sviluppo del processo creativo a prolungarsi per alcuni anni. Il director’s cut originale ha una durata di 105 minuti, mentre una versione decurtata fino a 90′, e non ancora ultimata, è stata proiettata a Rotterdam nel 1998 e allo Slamdance Film Festival (Park City) del 1999.

Il senso dell’operazione è racchiuso nelle parole dello stesso regista: «Chi pensa che il mondo rappresentato nel libro di Ballard sia ormai superato, rimarrà fortemente deluso. I contenuti sono di una attualità sconcertante: non viviamo in un paesaggio dove la realtà pervasiva dei media controlla il nostro tempo? Non siamo ossessionati e consumati da psicopatologie che creano e determinano le nostre relazioni con noi stessi, la nostra famiglia e gli amici, i nostri modelli, i nostri governi? Non è che le nostre automobili e altri veicoli sono diventati degli oggetti-feticcio sessualizzati?» (Simon Sellars, ballardian.com)

L’opera di James G. Ballard (1930-2009) è una visione globale dell’orrore intrinseco alla società dell’estetica: «Una serie di quadri di organi sessuali immaginari. Mentre passeggiava per la mostra, sentendo la mano di Karen stretta sul suo polso, Trabert cercava qualche punto di congiunzione efficace. Quelle immagini oscene, creature da incubo senza testa, sogghignavano come i corpi distesi senza vita nella capsula Apollo, come le vittime di mille incidenti automobilistici». Questa visione neo-espressionista e iconoclasta è sintesi della scissione tra mondo reale (interno) e mondo virtuale (esterno), intrinseca all’opera dello scrittore, e ripresa testualmente dalle parole pronunciate dalla voce-off all’inizio del film di Jonathan Weiss: «La realtà è una costruzione artificiale del nostro limitato sistema nervoso. Creiamo la realtà in funzione delle nostre necessità, e non della verità». 

La trasposizione del corpo e dell’apparato anatomico-genitale in una dimensione onirica che ne delinea la struttura come un “paesaggio” (cioè “ciò che si vede”), si intreccia al metallo delle lamiere contorte degli incidenti stradali (in anticipo su Crash) e alla morte spaziale definita dall’orrore universale della solitudine. Il tutto è riprodotto nello sguardo connotato di scopofilia (il voyeurismo) e di pornografia (in quanto ne mostra il lato “osceno”) della trasposizione cinematografica. Oscenità sintetizzabile nell’immagine del fungo atomico così commentata dal relatore universitario: «In questa nuvola c’è il destino dell’uomo, l’attesa del futuro».

Il film diretto nel 2000 dall’australiano Jonathan Weiss, scritto in collaborazione con Michael Kirby, non è mai uscito nelle sale, ma ha ricevuto la gratificazione dell’entusiasmo dello stesso Ballard che, dopo la visione, ne ha suggerito l’aggiunta dell’introduzione iniziale. Il “corridoio della paura”, percorso dalla macchina da presa che si avvicina con un lento carrello alle spalle del Dott. Traven all’inizio del film (che è complementare allo stesso corridoio percorso dalla steady-cam nel finale del film), ha come geometrica direzione universale quella del bianco totale che appare sullo sfondo dello schermo: una sorta di visione astratta della morte.

Traven/Travis/Talbert/Travesrs… (Victor Slezak) è il protagonista dall’identità frammentata (i molteplici nomi identificano sempre la stessa persona): un uomo che vuole uccidere di nuovo il presidente Kennedy, «ma questa volta in modo che abbia un senso», come confessa il capitano Webster (Mariko Takay) alla conturbante Karen Novotny (Anna Juvander).
La trama si esaurisce qui, il resto è un flusso ininterrotto di immagini plastiche di fiction illuminate dalla fotografia di Bud Garner, che alterna il colore al bianco e nero, intervallate da immagini documentarie che testimoniano l’orrore in cui l’uomo è sprofondato.

The Atrocity Exhibition è un piano-sequenza di morte (senza catarsi) in cui si alternano i bombardamenti al napalm della guerra del Vietnam, i bambini bruciati dall’esplosione nucleare di Hiroshima, il filmato amatoriale di Abraham Zapruder che mostra l’omicidio di JFK, l’esplosione del Challenger, i crash-test con i cadaveri dell’ex-DDR, immagini reali di incidenti stradali e operazioni di chirurgia plastica. Questo perché l’orrore è nell’imminenza di una Terza Guerra Mondiale così spiegata dal Dott. Traven (ma la ripresa mostra solo un anonimo dettaglio laterale della bocca) alla sua paziente: «Per noi la Terza Guerra Mondiale può essere solo una macabra performance di pop-art. L’umanità è una mostra deòle atrocità di cui si può solo essere spettatori».

L’evocazione testuale di una Terza Guerra Mondiale, riproduce (per immagini) grandi gruppi umani prigionieri dei loro schemi protettivi che, come le famiglie e i singoli individui, proiettano nei conflitti il senso delle loro paure. Osservando il loro comportamento si comprende come il film tenti la strada della descrizione di una proiezione bellica delle singole angosce e frustrazioni che generano aggressione: il risultato sono sequenza terribili e reali di bambini bruciati dal Napalm e/o la morte “a colori” di JFK. Ma nell’orrore c’è anche l’oscuro mistero della fascinazione, quello stesso che fa rallentare gli automobilisti di fronte ad un incidente stradale e che pone le basi della poetica ballardiana in merito alla sessualità e alla distruzione del corpo, come ricorda il relatore dei crash-test: «L’incidente automobilistico, soprattutto, rivela impulsi generalmente nascosti che hanno a che veder con la patologia, la sessualità e l’auto-sacrificio». Mentre scorre l’elenco degli incidenti delle star (da Jayne Mansfield, passando per James Dean, per finire ad Albert Camus), aggiunge: «I parenti delle vittime di incidenti stradali dimostrano un aumento della loro attività sessuale, e un miglioramento generale del loro stato di salute».

Il regista si allinea alla poetica di James G. Ballard e costruisce un caleidoscopio, a metà tra l’analogico e il digitale, in cui la pasta granulosa dei vecchi documentari super 8 si mescola con l’asettica registrazione traslucida dell’immagine elettronica/digitale, mescolando immagini anti-narrative all’interno di un apologo astratto e perturbante. The Atrocity Exhibition è intriso di tecnologia, cultura americana, trans-umanesimo, culto dell’immagine e orrore (im)materiale: il fine è quello di disarticolare l’irrappresentabile del testo di James G. Ballarrd e, attraverso di esso, determinare la comprensione dell’abisso psico-fisico-sociale in cui l’uomo è sprofondato. Ancora una volta il concetto è espresso attraverso un’immagine fortemente simbolica, costituita dal connubio di arcaico e moderno, per delineare la figura “orrorifica” del nuovo millennio: l’ “uomo-antenna”, un essere umano isolato sopra la città, prigioniero dei cavi metallici dell’antenna e ancorato al vecchio tubo catodico, spento, distrutto e abbandonato.

The Atrocity Exhibition è dunque un film dell’orrore (quello stesso raccontato da Kurtz nel finale di Apocalypse Now) fatto di immagini reali e di fiction, in cui la forza disturbante e repellente della ripresa in bassa definizione delle vere operazioni di chirurgia plastica, cancella in un istante ogni immagine ricostruita e fa sterzare il racconto di Jonathan Weiss verso un orizzonte (pessimista e iconoclasta) teso alla costruzione di una teoria “liquida” espressa dallo stesso Ballard nell’introduzione del libro: «La linea di demarcazione tra paesaggio interno e paesaggio esterno è crollata. I terremoti possono essere originati da sconvolgimenti sismici che hanno luogo nella mente umana. L’intero universo randomizzato dell’età post-industriale esplode in frammenti criptici». La frammentazione è la chiave di lettura del film, all’interno del quale si costruisce un tempo “irreale” simile alle dinamiche della cronofotografia: l’obiettivo diventa quello di rappresentare il “controllo” (virus della società contemporanea) come un composto di falsi totem e ipocrite certezze.

Ecco allora che Marilyn Monroe, James Dean, Jayne Mansfield e John Fitzgerald Kennedy, da icone pop e ideologiche del XX secolo diventano sintesi delle nevrosi e del collasso tecnologico (tutte morti accomunate dall’automobile) determinati dall’ossessione del “controllo”. Il corpo e la sua superficie assumono nell’opera di Ballard/Weiss l’immagine simbolica del “paesaggio”. Il landscape anatomico ri-definisce i rapporti con il mondo esterno. Un corpo studiato, esplorato, sezionato in migliaia di fotogrammi pornografici diventa qualcosa di astratto e di intangibile. L’iperrealtà della pornografia hi-tech (stile Michael Ninn) corre parallelamente all’estetica metallica dei crash-test automobilistici. Dalla sintesi dell’astrazione del corpo e dalla materializzazione del metallo nasce una nuova società “abituata” e anestetizzata verso l’orrore.

La morte in diretta (quella della guerra del Vietnam, ma non solo) perde ogni componente di raccapriccio in quanto il corpo rappresentato non è più fatto di carne bensì di migliaia di pixel. Gli esseri umani in The Atrocity Exhibition, vengono descritti come macchine e le macchine come esseri umani. I radiatori, le lamiere contorte, i vetri dei fari spezzati, vengono visti come i veri feriti dello scontro/amplesso, mentre le azioni dei protagonisti vengono progressivamente spogliate di ogni retaggio umano.

The Atrocity Exhibition è un’apocalisse di design e spazi post-industriali inquadrati con uno sguardo pornografico (in quanto l’andamento centripeto del film nega allo sguardo la possibilità di fuga), che mostra l’abisso dell’orrore vero: non quello fatto di latex e computer-graphic dei mostri del cinema horror, ma quello fatto carne, sangue, nervi e sesso della vita reale. Un orrore “filosofico” (alla Kurtz) che travalica il concetto di cinema e di immagine in movimento per tramutarsi in un’esperienza visiva allineata alla video-arte. La sequenza che mostra l’operazione di chirurgia plastica facciale è sintesi di questo pensiero: il volto anestetizzato e immoto, riverso sulla tavola operatoria assume il colore del metallo e mostra il rosso carminio del suo interno in una visione splatter che è perfetta antinomia del risultato e dell’utilizzo della chirurgia plastica.

I “pezzi di ricambio” (seni, labbra, vagine, peli…) mostrati all’interno della valigetta del chirurgo sono l’esempio evidente dell’orrore esistenziale dell’uomo. Pezzi di carne/plastica che grazie al silicone annullano (apparentemente) le imperfezioni estetiche, ma che contemporaneamente rivelano il degrado interiore di un corpo “frammentato” che appare perfettamente sovrapponibile all’immagine “oscena” della sessualità esplicita (come testimonia la dissolvenza incrociata tra l’operazione chirurgica e la penetrazione sessuale). The Atrocity Exhibition è un’esperienza visiva iconoclasta e senza paragoni, in quando mostra un continuo sovrapporsi di situazioni ossessive e di parentesi cristallizzate fuori dal tempo, tese entrambi verso un epilogo lirico e poetico che, dopo la morte spaziale (quella dell’esplosione del Challenger, dopo 73 secondi di volo, durante la diretta TV del 28 gennaio 1986 alle ore 11:39), mostra la “bellezza” universale dello spazio interiore. Uno spettacolo raro (in tutti i sensi).

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