A partire da venerdì 22 novembre fino al 1 dicembre, al Teatro Massimo debutta una nuova produzione di Sardegna Teatro: Randagi, per la scrittura e la regia di Roberto Cavosi
Randagi nasce nell’ambito di un laboratorio a cura del drammaturgo Roberto Cavosi tra settembre e ottobre 2018 che ha generato un incontro virtuoso tra il regista e gli attori, al punto che, dice Cavosi: “appena rientrato a Roma, dove vivo, ho elaborato un testo appositamente scritto per quegli attori”.
Randagi è il racconto di alcuni nuclei familiari, accomunati tra loro dalla passione per il karaoke.
Una passione liberatoria – dal sentore apotropaico – per quel gruppo di amici che cercano spensieratezza, nella cittadina di provincia in cui si alternano le loro vicende. Quella leggerezza viene infranta tragicamente dal rapimento della giovane Annalisa, di cui si smarriscono inesorabilmente le tracce. La scomparsa diventa un fatto drammatico che attraversa le esistenze degli amici e dei genitori, attivando vacui meccanismi di difesa. I personaggi brancolano nello spazio e nelle intersezioni delle loro vite, si aggirano allo sbando fragili e aggressivi come randagi. C’è una domanda sottesa che diventa sempre più urgente: come trovare la felicità?
Note di regia
Randagi nasce da un percorso virtuoso che ha visto il suo inizio con un laboratorio dedicato a nove attori di riferimento per Sardegna Teatro. Il laboratorio, tenutosi tra settembre ed ottobre 2018, si è svolto attraverso letture, mise en espace, esperimenti interpretativi di alcuni miei testi. L’incontro è stato estremamente fruttuoso al punto che appena rientrato a Roma, dove vivo, ho elaborato un testo appositamente scritto per quegli attori. Successivamente nel febbraio 2019 mi è stato possibile, attraverso un secondo laboratorio di una decina di giorni, verificare sempre con lo stesso gruppo la validità del testo e le varie possibilità sia interpretative che di regia. A fine laboratorio è risultato quasi naturale pensare ad una vera e propria messa in scena. Il lavoro propriamente di palcoscenico comincia così nel migliore dei modi, attraverso una conoscenza reciproca ed approfondita tra attori e regista.
In Randagi ho cercato di esaltare al meglio, all’interno di un meccanismo tipicamente noir, le peculiarità di ogni singolo attore\personaggio inserendolo in un conteso “corale”.
Il testo infatti, raccontando del rapimento di una giovane ragazza e di ciò che succede nel suo contesto familiare e sociale, mi permetteva di analizzare un comunità ristretta: il “coro”.
Un coro di persone che si guardano continuamente e anche sospettosamente tra loro e che, messe alla prova, da un evento così luttuoso entrano profondamente in crisi, smascherando il dolore, la crudeltà e le speranze riposte in ognuno di loro.
La rapita, dal canto suo, chiusa nel suo “carcere”, non può fare altro che immaginare cosa possa succedere nel mondo esterno, una realtà che le si presenta, nell’inasprirsi sistematico della cattività, più come un incubo che come una possibilità di salvezza, al punto che anche i ricordi più belli si trasformano in grottesche immagini di malinconico e crudo dolore.
In lei e negli altri protagonisti di questa vicenda, tutte persone che condividono la passione per il karaoke, anche le note più piacevoli di una canzone diventano suoni insopportabili, fastidiosi e acuti larsen elettronici, distorsioni che man mano sottolineano parossisticamente anche i momenti più banalmente quotidiani della loro vita, fosse anche nella colazione mattutina, o nella seduto da un fisioterapista.