Il libro, Riprendiamoci la rete – piccolo manuale di autodifesa digitale per giovani generazioni ci spiega come farlo.
L’idea di base del data mining è che quando non paghi qualcosa il prodotto sei tu. La rete rappresenta un grande vantaggio dei nostri tempi, ma porta con sé rischi e pericoli che vanno affrontati in tutti i campi, come nell’educazione e nel diritto. Il libro di Arturo Corinto ci aiuta a capire quali sono le insidie della rete e come gestirle.
“La “rete” ha portato enormi vantaggi nel mondo degli affari, della comunicazione, del lavoro e dell’associazionismo, viene usata per rappresentare istanze sociali e difendere i diritti umani e accedere a ogni tipo di conoscenza, ma il suo utilizzo si sta rivelando una fonte giornaliera di problemi per chi la utilizza con leggerezza”. Questo è il pensiero a riguardo di Arturo Di Corinto, giornalista, direttore del Master in comunicazione pubblica e istituzionale presso la Link Campus University e autore di Riprendiamoci la rete – piccolo manuale di autodifesa digitale per giovani generazioni.
“Questo libro vuole contribuire a rendere i più giovani maggiormente consapevoli dei rischi che comporta l’utilizzo di Internet”, ha scritto Di Corinto. “Per questo, prendendo a pretesto alcuni fatti di cronaca, chi scrive ha provato a raccontare i rischi e le insidie di una “presenza” superficiale in rete e a precisare concetti e nozioni che si stanno perdendo a causa del fatto che usiamo “la Rete” come un elettrodomestico: senza capire veramente come funziona. Quando usi una cosa che non comprendi, sei tu a essere usato. Può essere utile prendersi del tempo per riappropriarsi della conoscenza di questo mezzo straordinario per conseguire i nostri scopi invece di favorire quelli altrui”.
A seguire due brevi capitoli del libro.
Data mining, quando non paghi qualcosa il prodotto sei tu
D come data mining. Per Wikipedia il data mining “è l’insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di un’informazione o di una conoscenza a partire da grandi quantità di dati”. Il processo avviene attraverso metodi automatici o semi-automatici. E aggiunge che con data mining “si intende anche l’utilizzo scienti co, industriale o operativo di questa informazione”.
Nell’epoca di Facebook e dei Big Data, il data mining è cruciale per individuare la propensione all’acquisto dei consumatori, ma anche per de nirne il pro lo politico, sessuale, religioso. Per no il rischio sanitario o creditizio. I dati, provenienti dalle fonti più disparate, come l’uso di app, computer e smartphone, carta degli sconti, tessere elettroniche e per la pay- tv, vengono raccolti in grandi database e, incrociati fra di loro, possono essere usati per costruire pro li singoli e aggregati, individuali e collettivi di consumatori, lavoratori o elettori. Questi dati, shackerati con i metodi della statistica e delle scienze sociali grazie a sistemi automatizzati, definiscono la nostra data-immagine. Che è il profilo digitale della nostra persona, quello che ci precede quando andiamo a chiedere un mutuo in banca o cerchiamo di contrattare con l’assicurazione. Però, mentre prima questi dati andavano raccolti e con fatica da fonti diverse, oggi basta usare quelli accumulati da social network come Facebook, Instagram, Twitter e altri per fare una profilazione completa degli individui ed essere in grado di offrire al consumatore quello che è più propenso a desiderare.
Per capire come questo accade, la società Data X, di base a New York, ha creato un add-on, un’estensione per Mozilla Firefox o Chrome, che si chiama Data Sel e (www.datasel e.it). Scaricata e installata sul nostro computer, fino al primo luglio 2018 permetteva di vedere quanto tempo passiamo a leggere i post dei nostri amici, quanti like produciamo, quanti link clicchiamo e che cosa digitiamo o cancelliamo dai post di Facebook. Dopo avere interagito un poco sulla piattaforma avremmo avuto un quadro preciso e dettagliato del tipo di dati che sono in possesso di Facebook e capire perché sia al centro dello scandalo di Cambridge Analytica accusata di aver contribuito a manipolare il voto della Brexit e quello per Trump, proprio grazie a un uso spregiudicato dei dati degli utenti di Zuckerberg.
Ma Data Sel e faceva di più: usando degli algoritmi matematici impilati in un software dall’Università di Cambridge era in grado di generare un pro lo psicologico dettagliato dell’utente legato a età, genere, preferenze sessuali, intelligenza, ma anche soddisfazione per la vita, orientamento politico e religioso. Per farlo usava anche alcuni strumenti di IBM Watson, l’intelligenza arti ciale di IBM, che è in grado di identificare emozioni, propensioni sociali e stili di vita dei soggetti di cui elabora i dati.
È proprio quello che faceva Cambridge Analytica a giudicare dal rapporto creato da Michael Phillips, suo impiegato esperto di Big Data: con poche righe di codice reso pubblico sul sito GitHub, Phillips era in grado di geolocalizzare gli elettori e poi attraverso gli hashtag usati, i link cliccati e le conversazioni intrattenute, ricavarne il “sentiment”, cioè l’inclinazione emotiva e cognitiva verso temi elettorali per poi cucirgli addosso un messaggio politico che non erano in grado di rifiutare.
Riappropriarsi dei propri dati
Gli scandali relativi all’uso improprio dei nostri dati personali sono destinati a continuare. Non li conosceremo mai tutti quanti, non ci saranno sempre audizioni parlamentari a imbarazzare chi non ha vigilato sulla nostra privacy, e non ci sarà sempre la stessa copertura mediatica dell’affaire Cambridge Analytica, perciò è bene correre subito ai ripari.
I dati sono il petrolio della società dell’informazione e sotto forma di pro li personali e big data sono le miniere da cui le aziende high tech estraggono il plusvalore che gli consente di orientare politiche e consumi. Ma, senza fare troppi discorsi, è bene ricordare che dalla cattiva gestione dei dati in possesso delle piattaforme a vedersi negata l’assunzione o bloccato un affare il passo è breve.
Dopo gli scandali Facebook ha attivato una funzione speciale per recuperare tutti i dati che ci riguardano. E gli altri? Come si sono regolati? Come facciamo a sapere che uso fanno dei dati che produciamo?
Per sapere subito cosa sanno di noi i singoli siti che usiamo, da Linkedin a Starbucks, da Instagram a TripAdvisor, da Ikea a GoogleMaps, oggi è possibile consultare una sorta di metasito dal nome evocativo: My Data Request. Il sito contiene un link alle app o ai siti web a cui abbiamo consegnato negli anni i nostri dati personali e cliccandoci sopra diventa facile richiedere l’archivio dei dati che ci riguardano in maniera compatibile con le leggi vigenti.
My Data Request offre anche di più. Dopo aver analizzato le pratiche di gestione della privacy e le regole legali di circa cento app e portali ha predisposto una serie di lettere standardizzate che possono essere usate per richiedere i dati in archivio senza ricorrere a un avvocato. Per gli europei le lettere sono formulate in base alla normativa europea sul trattamento dei dati, la GDPR, e contengono domande circa le finalità del trattamento; le categorie di dati personali interessati; a chi saranno comunicati; il periodo di conservazione, eccetera.
Informazioni importanti, perché se in alcuni casi si tratta di dati come l’email e altri dati identificativi quali l’età, il sesso, il paese di provenienza, in altri parliamo di foto, chat e download. In certi casi poi si tratta di metadati, cioè i dati che definiscono le relazioni tra i dati stessi: dove, come, quando, con chi, per quanto tempo abbiamo fatto questo o quest’altro. Spesso queste informazioni sono già organizzate come pro li che ci
identificano in base a gusti, tendenze e attitudini ed è giusto sapere se esistono e come vengono gestiti.
Il sito My Data Request offre insomma un modo semplice e veloce per capire quali dati vengono raccolti su di noi, dove e come è possibile scaricare tali dati per sapere in dettaglio quali e quante informazioni personali ogni determinata azienda con cui abbiamo interagito possiede su ciascuno.
Il sito offre anche un comodo motore di ricerca interno per veri care la presenza nel loro database dell’azienda che vogliamo interpellare.
Molte di quelle censite, come Badoo, Skype e DropBox, purtroppo sono state bucate nel passato da hacker malevoli che hanno poi condiviso pro li e account nel web profondo, e questo significa che quelle aziende non sono le sole ad averli. Altre hanno a che fare con giochi online per bambini e adolescenti, da Angry Birds al successo del momento, il videogame sparatutto Fortnite.