La tredicesima edizione del Lux Film Days Prize si è conclusa il 27 novembre con la cerimonia di premiazione del film God exist, her name is Petrunya di Teona Mitevska.
Lux Film Days: Oltre alla pellicola vincitrice del premio, gli altri due titoli finalisti, Cold case Hammarskjöld di Mads Brügger e The realm di Rodrigo Sorogoyen, continueranno a girare l’Europa tramite l’iniziativa Lux Film Days, una serie di proiezioni speciali organizzate in collaborazione con i cinema e i festival di diversi paesi.
Il Lux Film Prize nasce proprio con l’intento di abbattere le barriere linguistiche per creare un mercato cinematografico europeo comune, per questo tutte le proiezioni sono in lingua originale, sottotitolate.
In questa breve rassegna, dedicata al Lux Film Prize, verrete insieme a noi alla scoperta dei tre film selezionati, per conoscere la loro storia e capire quali sono i valori che vogliono trasmettere. Infatti, pur essendo lavori molto diversi tra loro, hanno in comune il fatto di rappresentare l’Europa.
Cold Case Hammarskjöld di Mads Brügger: un documentario ambizioso:
Il primo film di questo percorso cinematografico è Cold Case Hammarskjöld di Mads Brügger. È solo la terza volta che un documentario viene selezionato tra i finalisti del Lux Prize. La pellicola cerca di far luce sulla morte del segretario generale delle Nazioni Unite, lo svedese Dag Hammarskjöld, avvenuta nel 1961 su un aereo diretto verso la Repubblica democratica del Congo. Il regista si è imbattuto in un lavoro più difficile del previsto e in un progetto ambizioso.
Un caso irrisolto:
Cinquant’anni dopo l’incidente aereo che provocò la morte di Dag Hammarskjöld, il regista Brügger ci conduce sulle tracce di un caso rimasto irrisolto. Indagini, appunti e interviste faranno emergere una verità sconvolgente. Il segretario delle Nazioni Unite, infatti, all’epoca stava cercando di diminuire l’influenza dei paesi occidentali, come il Regno Unito e la Francia, nei paesi africani. Mads Brügger, regista e soggetto principale del documentario, insieme al suo aiutante Göran Björkdahl ripercorrono le fasi principali del caso.
Tra verità e ironia:
Quello che ricorderete di questo documentario sono i post-it appiccicati alla parete che scandiscono i capitoli principali dell’indagine, e che ci guidano nella storia di numerosi personaggi. Oltre al rumore metallico della macchina da scrivere, utilizzata dalle due segretarie che stanno scrivendo la sceneggiatura con Brügger. In questo lavoro, infatti, il regista non sta dietro le quinte ma davanti alla telecamera. E sono tanti i momenti in cui la ricerca della verità lascia spazio all’ironia. “Speravo che questa farsa coprisse i miei fallimenti come giornalista”, afferma a metà del documentario, quasi rassegnato. Lo studio sul caso ha infatti richiesto un lavoro di circa sei anni e il quadro che ne esce è composto da passaggi intricati e oscuri complotti.
“Quando andai all’Istituto cinematografico svedese a illustrare il progetto, la persona con cui parlai era quasi commossa, perché trovava singolare che un uomo danese volesse fare un film su Hammarskjöld, che in Svezia è chiamato “il signore della pace”: così mi hanno dato i soldi per fare il film. All’inizio pensavo che fosse un progetto semplice e che si sarebbe concluso presto, invece è diventata un’impresa titanica con molti dubbi, domande e momenti di disperazione.”
Grazie alla determinazione di Brügger è stato portato a termine questo enorme lavoro. E grazie alla sua ironia lo spettatore non si perde nell’orrore della vicenda. Associazioni segrete, militari eccentrici, guerra batteriologica, suprematisti bianchi e misteriosi omicidi: sono questi alcuni dei tanti temi toccati nel documentario, che vengono narrati a volte con filmati originali dell’epoca, a volte con sequenze animate in bianco e nero. Brügger, vestito completamente di bianco, come “il cattivo” di questa storia, riesce a catturare l’attenzione dello spettatore per due ore e a farlo riflettere sull’importanza della verità. Dag Hammarskjöld è forse un nome che non ricorda nessuno, se non qualche anziano, come dice il regista, eppure se non fosse stato ucciso l’Africa sarebbe ora un paese diverso.
A Mads Brügger è sempre piaciuto accettare sfide impegnative: nel docufilm The red chapel si è finto un manager di una compagnia teatrale comunista; in The ambassador ha assunto l’identità di un ambasciatore della Liberia. In quest’ultimo lavoro è riuscito a portare alla luce una vicenda dimenticata da molti, a ricordarci come fare cinema sia a volte un’importante occasione per mostrare la verità. Sempre con quella vena esilarante e provocatoria che lo contraddistingue.