Pandemic fatigue: Apatia e demotivazione. Stanchezza mentale che toglie forza. Primo sintomo: insofferenza verso le misure di prevenzione.
Si chiama “pandemic fatigue”. Che è – secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità – “una risposta prevedibile e naturale a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti”. Compreso di chi non è stato direttamente toccato dal virus.
Con il rischio della perdita di fiducia nelle misure anti-Covid. Che fare?
I governi dovrebbero sforzarsi di comprendere di più i cittadini, per evitare di generare rabbia e frustrazione. E poi adottare misure semplici ma incisive. Che permettano di vivere in sicurezza la propria vita. “È una risposta psicofisica naturale e anche prevista nelle situazioni di crisi prolungata che coinvolga i singoli individui e la salute pubblica”, spiega Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’ International Psychoanalytical Association.
Che cos’è esattamente questa condizione ed è legata ai momenti eccezionali che stiamo vivendo?
“E’ una reazione a eventi eccezionali prolungati. Una reazione psicofisica ad uno stress duraturo, con sintomi psicologici di stanchezza, disillusione e sintomi fisici correlati allo stress prolungato. I fattori in gioco sono molti, innanzitutto il fatto che la pandemia da Covid-19 è nuova e ci ha colto impreparati. L’ultima pandemia è stata la spagnola, dal 1918 al 1920. I sopravvissuti sono ormai pochi e molto anziani, non in grado comunicare la loro esperienza all’interno dei nuclei familiari. Inoltre la gravità e l’entità della pandemia da Covid-19 hanno richiesto misure ‘invasive’, con un impatto senza precedenti sulla vita quotidiana di tutti, compreso di chi non si è ammalato. Distanziamento fisico, mascherine tutto il giorno, limitazione dei contatti tra familiari, stravolgimenti delle modalità scolastiche, sul posto di lavoro e avvio dello smart working in modo diffuso”.
Come riconosciamo la pandemic fatigue?
“È un tipo di fatica molto particolare, una stanchezza mentale con perdita di forza psichica. Ha un nome preciso: “anergia” ovvero sensazione in cui si desidera fare una cosa ma poi non la si fa, non per un impedimento fisico ma perché mentalmente faticosa e quindi si rinuncia. Questa forma di stanchezza è insidiosa poiché all’inizio non è facilmente riconoscibile. Uno dei segnali è l’insofferenza verso le regole per contrastare l’epidemia e contenere il diffondersi del Covid-19. È chiaro che le regole rendono la vita di tutti i giorni più complicata e faticosa, meno piacevole, ma non rispettarle implica la possibilità d’infettarsi. All’inizio c’è stata una risposta molto vivace nell’accettare le restrizioni, per il pensiero costante della malattia, della morte e della perdita. Con il tempo può diventare insostenibile, a meno che ci si senta all’interno di un progetto personale, familiare e collettivo, partecipi dell’impresa di salvare se stessi e aiutare gli altri. Un altro elemento critico è la mancanza di un orizzonte temporale certo. L’incertezza richiede molte forze per poter essere sopportata, mina la sicurezza personale”.
C’è qualcuno più esposto di altri?
“Può colpire chiunque, a qualunque età. Naturalmente ci sono persone che la sviluppano prima, alcune che reagiscono di meno e altre che recuperano più rapidamente. I più esposti sono gli operatori sanitari che vanno incontro a fenomeni più specifici, come errori da burn-out, perché non hanno sufficienti tempi di recupero per smaltire lo stress lavorativo. Gli adulti possono sviluppare una forma di ‘negazionismo difensivo’ per riuscire a sostenere le angosce provocate dal pericolo di infettarsi e dallo stress quotidiano del dover far rispettare le misure di prevenzione anche in famiglia, a scuola, sul posto di lavoro. Gli adolescenti passano da un’adesione meticolosa alle regole fino all’auto-lockdown, al superamento delle angosce attraverso la ribellione e la trasgressione. Per i bambini invece un clima familiare e la capacità dei genitori di rassicurarli gioca un ruolo fondamentale. Possono risentire di uno stress prolungato soltanto se c’è incertezza: i bambini sono abitudinari, le regole, le abitudini, i punti fermi servono a contenere le loro emozioni e a favorire o sviluppo mentale”.
C’è una dimensione collettiva e una dimensione individuale di questo stato d’animo?
“La fatica da pandemia è una dimensione individuale, ma le persone non sono monadi, vivono in comunità, sono attratte dalla socializzazione, grazie al gruppo possono sperimentare un senso di appartenenza e soddisfare parte dei propri bisogni materiali e psicologici. Nei gruppi gli individui sperimentano due tipi di stati mentali, uno cosciente razionale e l’altro inconscio e pulsionale. Chi appartiene a un gruppo, in seguito ad una regressione inconscia, rinuncia a qualcosa di se stesso. Stanchezza, incapacità di eseguire le prescrizioni richieste, paure e preoccupazioni del singolo possono essere riversate e condivise in un gruppo che, se ben funzionante, permette di alleggerirsi, di rafforzarsi l’un l’altro, di darsi appoggio e forza psichica. Se invece il gruppo funziona con meccanismi di difesa inconsci (si chiamano “assunti di base”) volti a tenere sotto controllo angosce primitive, allora l’inconscio del gruppo può spingere gli individui a comportamenti contrari alle idee razionali”.
Quali strumenti abbiamo per attraversare questo momento senza farci schiacciare dalla stanchezza?
“L’Oms ha fornito una serie di indicazioni per favorire l’adesione della popolazione alle richieste delle autorità sanitarie dei rispettivi governi. La prima è comprendere le persone, il loro profondo disagio e direi anche lo smarrimento, un senso di paralisi di fronte ad un pericolo sconosciuto e invisibile. Un’altra indicazione è consentire la vita normale riducendo il rischio, attraverso poche regole chiare, spiegando perché sono necessarie e mostrandone l’efficacia. E poi c’è il fattore fiducia: è importante infondere fiducia sulla possibilità di farcela e tirare tutti in campo come parte della soluzione, come protagonisti. Sarebbero inoltre molto utili gruppi di ascolto e interventi psicologici diffusi”.
E nella vita quotidiana?
“Per non soccombere alla stanchezza è indispensabile avere un orizzonte temporale, se si ha un tempo definito è possibile trovare risorse in se stessi per affrontare il quotidiano e pensarsi in un futuro prossimo. La mente per ben funzionare ha bisogno di muoversi entro confini spaziali e temporali definiti. Delimitare permette di contenere l’ansia, contrastare lo scivolamento depressivo, trovare un tempo per le pause, rimettersi in forze. Ma per concedersi delle pause occorre sapere per quanto tempo ci è richiesto un sacrificio. Nel quotidiano è importante darsi obiettivi a brevissimo termine, concedersi gratificazioni che possano compensare i sacrifici. Come scriveva Goethe: “Si dovrebbe almeno ogni giorno ascoltare qualche canzone, leggere una bella poesia, vedere un bel quadro e, se possibile, dire qualche parola ragionevole”.
Spesso gli psichiatri consigliano la socialità, in questo caso come si fa?
“La socialità ha molte forme. In questo periodo abbiamo dei limiti nel vedere gli amici, vivere la propria affettività attraverso abbracci, baci, strette di mano, stare vicini l’uno all’altro. La socialità non è facilmente sostituibile con quella on-line, anche se per i giovani nativi digitali la dimensione virtuale fa parte di un modo di vivere insieme agli altri e in gruppo. Il virtuale comunque non potrà mai sostituire il reale poiché manca la sensorialità, il calore, gli odori, il tatto”.