C’è fretta di ripartire. Siamo ben lontani dallo zero contagi, soprattutto in Lombardia, ma la data per la riapertura delle attività economiche sembra fissata: 4 maggio. Sarà possibile?
Le aziende sono disposte a pagare di tasca propria i test sierologici per i propri dipendenti e dotarli così del «patentino di immunità» per rimetterli sul mercato del lavoro al più presto, soprattutto in quelle attività dove lo smart working proprio non si può fare, come ad esempio i cantieri. A gelare gli entusiasmi ci pensa però Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità che ai microfoni di Agorà ha dichiarato: «I test sierologici non danno un patentino di immunità. I vari test, se sono affidabili, ci dicono solo se una persona ha sviluppato o no degli anticorpi contro il virus. E devono essere eventualmente accompagnati da un tampone». Quindi test sierologico più tampone? Che cosa vuol dire?
Tamponi e test sierologici: le differenze
Intanto meglio fare un piccolo ripasso per evitare di fare confusione. Gli ormai noti tamponi servono per individuare la presenza del coronavirus all’interno delle mucose respiratorie: quando il tampone è positivo vuol dire che in quel momento Sars-Cov-2 è in circolo nel nostro organismo (anche se siamo asintomatici) e siamo contagiosi. In pratica il tampone fornisce un’istantanea dell’infezione.
I test sierologici invece sono eseguiti sul sangue e servono a individuare chi è entrato in contatto con il coronavirus e individuano gli eventuali anticorpi prodotti dal nostro sistema immunitario in risposta al virus. In sintesi raccontano la storia della malattia. Se il risultato è positivo vuol dire che si è sviluppata una qualche immunità (quanto lunga non si sa, per saperlo i test vanno ripetuti nel tempo). In teoria siamo pronti per tornare in comunità perché per almeno un certo periodo di tempo non dovremmo rischiare di riammalarci di Covid-19.
Perché serve ancora il tampone dopo il test sierologico?
Ma allora perché Rezza sostiene che i test sierologici devono essere accompagnati dal tampone per dare una vera «patente di immunità»? Perché avere prodotto anticorpi non significa non essere contagiosi. È possibile infatti aver prodotto gli anticorpi (essere positivi al test sierologico) ma avere ancora in circolo il virus e dunque essere ancora pericolosamente contagiosi (ma con la patente di immunità in mano).
Sono noti casi di pazienti che, pur non avendo più sintomi ci mettono molto tempo ad ottenere il doppio tampone negativo che attesta la guarigione virologica. Insomma, stanno bene, hanno sviluppato gli anticorpi, ma il virus non li abbandona. «Per poter dare una vera patente di immunità dovremmo sottoporre a tampone tutte le persone che hanno sviluppato anticorpi. Se si saranno anche negativizzate potranno tornare operative senza prendere precauzioni. Verosimilmente sono guarite e non sono più contagiose» propone Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano.
«Inoltre c’è il problema dei falsi positivi – aggiunge Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi – perché questo genere di test di ricerca gli anticorpi, non solo per il coronavirus, hanno un margine di errore collegato al metodo di alta sensibilità. I migliori test possono sbagliare del 5% e dunque c’è il rischio di dare la patente di immunità anche a chi magari in realtà non si è mai ammalato».
I diversi test sierologici
Ora facciamo ordine sulle due tipologie principali di test sierologici (quelli che misurano gli anticorpi come spiegato). I test sierologici sono essenzialmente di due tipi: quelli rapidi e quelli quantitativi. I primi, grazie ad una goccia di sangue, stabiliscono se la persona ha prodotto anticorpi (e quindi è entrata in contatto con il virus); per i secondi serve un prelievo di sangue e dosano in maniera più accurata e specifica le quantità di anticorpi prodotti. In entrambi i casi i test sierologici vanno alla ricerca degli anticorpi (immunoglobuline) IgM e IgG. Le IgM vengono prodotte temporalmente per prime in caso di infezione (7-21 giorni). Con il tempo il loro livello cala per lasciare spazio alle IgG (dal 14° giorno).
Quando nel sangue vengono rilevate queste ultime, le IgG, significa che l’infezione si è verificata già da diverso tempo e la persona tendenzialmente è immune al virus, fermo restando il problema dei falsi positivi e di chi si negativizza con grande ritardo, come spiegato.
Gli studi di siero-prevalenza
Ma a che cosa servono i test sierologici su larga scala? Ci consentono di sapere quante persone hanno realmente incontrato il virus ed è un dato importante soprattutto alla luce del fatto che molte persone con Covid-19 hanno avuto sintomi blandi o addirittura sono asintomatiche. Ciò accade grazie agli studi di siero-prevalenza, ovvero studi in cui si sottopone al test un campione rappresentativo della popolazione. Grazie a queste analisi è possibile conoscere la reale letalità della malattia, la diffusione geografica e la diffusione nelle diverse fasce di età. Sono tutte indicazioni utili per pianificare quando, come e quanto allentare le misure restrittive.
Mappare l’Italia
Anche l’Italia mapperà un campione della sua popolazione a partire dalla fine aprile con i test rapidi sierologici e vedere quale percentuale è immune al Sars-CoV-2. Tra la seconda e la terza settimana di maggio il lavoro dovrebbe essere completato. Si tratta di sottoporre tra i 150 e i 200 mila cittadini (tra i 6 e i 90 anni) all’ analisi che consente di rilevare la presenza di anticorpi al virus e quindi di capire se un individuo ha avuto l’ infezione pur non accusandone i sintomi e dunque il suo organismo ha «reagito» all’ aggressione esterna.
Il commissario Domenico Arcuri sta avviando in queste ore la procedura pubblica per l’ acquisto dei kit che dovranno rispondere a certe caratteristiche di qualità: avere una percentuale di specificità (rilevare gli anticorpi legati al Sars-CoV-2 senza confonderlo con altri tipi di coronavirus) superiore al 95% (riducendo al massimo il rischio dei falsi positivi), essere veloci e riproducibili nei laboratori italiani (uno per Regione). La scelta ricadrà su un unico candidato. Previsti tempi veloci, 48 ore.
Il nodo dell’affidabilità
Non tutti i test sierologici sono uguali e non tutti sono affidabili. Test con molti falsi positivi (me girano anche con affidabilità all’80-85%) rischierebbero di dare il via libera a persone che in realtà non hanno mai contratto il virus. Non solo, si rischierebbe una fotografia della circolazione del virus poco aderente alla realtà. Non si può correre il rischio di avere risposte sballate se questi test fossero allargati a una più ampia fascia di popolazione e utilizzati come «patente di immunità» per il ritorno al lavoro. L’ obiettivo, dice il vicedirettore dell’ Oms Ranieri Guerra, «è avere un unico test nazionale: se andiamo a usare diversi test con diverse performance rischiamo di avere una difficile comparazione».
Per ottenere una fotografia omogenea il test in Italia dovrebbe essere unico o quanto meno avere caratteristiche sovrapponibili. Le Regioni (e le single aziende) però stanno procedendo in ordine sparso.