I limiti del parametro R0. Troppe variabili nel comportamento del virus, ma altro calcolo è possibile
Coronavirus: Hébert-Dufresne, biomatematico, è docente presso il dipartimento di informatica dell’Università del Vermont.
Insieme al collega Antoine Allard, fisico dell’Università Laval del Québec, ha pubblicato di recente uno studio sulla rivista della Royal Society nel quale propone, per stimare l’evoluzione di un’epidemia. La critica principale al parametro R0 è la sua rigidità e la sua imperfetta aderenza alla realtà.
Il parametro esprime il numero di contagi che ci si aspettano dall’infetto medio, ma questo “infetto medio” è una creatura più mitica che realistica, perché nelle malattie come il Covid c’è una grande variabilità tra le capacità di contagio delle persone.
Perché il parametro R0 è al tempo stesso così criticato e così usato nelle previsioni sull’evoluzione della pandemia?
“È molto usato perché è facile da usare. E in fondo è una buona metrica. È il numero medio di infezioni che un infetto può causare. È molto popolare perché semplice: se R0 è superiore a 1, significa che le cose andranno male. Se R0 è inferiore a 1, invece, ciò indica che l’epidemia rallenterà e si estinguerà. Un problema è proprio questa semplicità: siccome con R0 si riduce tutto a un numero, viene istintivo paragonare gli R0 di differenti epidemie”.
Cosa c’è di sbagliato
“Sì, è sbagliato, perché naturalmente R0 dipende anche dalle specifiche modalità di trasmissione di una malattia infettiva. Quindi può capitare che una malattia con un R0 inferiore a quello di un’altra malattia finisca poi per espandersi di più. Ecco, se dovessi usare una metafora direi che parlare di R0, che è soltanto un numero, è come parlare del tempo considerando soltanto il dato della temperatura, quindi tralasciando venti, pioggia e nuvole. R0 non racconta tutta la storia, per così dire. Nonostante questo, in alcuni casi R0 è un’ottima metrica. Ad esempio per l’influenza è vero che l’infetto medio contagerà R0 persone. Invece il Sars-Cov-2 è più variabile dell’influenza: c’è maggiore variabilità nel numero di persone che si possono infettare e quindi usare il solo R0 nasconde aspetti della realtà, impedendo di avere un quadro esauriente”.
Voi che modello proponete per tenere conto di questa distribuzione così eterogenea dei contagi?
Coronavirus: il nostro approccio è la cosiddetta “network epidemiology”. Noi poniamo particolare attenzione alle reti di trasmissione della malattia. In questo modo riusciamo a modellare piuttosto bene la distribuzione delle infezioni secondarie, ovvero la distribuzione dei contagi causati dagli infetti. Questo ci permette – a differenza di R0 – di tenere conto che, probabilmente, ci sarà una maggioranza di persone positive al Covid che non infetta nessuno, e ci saranno invece altri che infetteranno 10 o 20 o più persone. Un approccio di questo tipo è utile perché il Coronavirus ha un’eterogeneità spinta, simile, ad esempio, alla distribuzione di ricchezza in una nazione. Anche in quel caso il valore medio ha poco senso, perché ci sono tanti poveri e poi c’è Bill Gates”.
Il vostro modello arriva a una stima probabilistica del numero finale di infetti tenendo conto, con formule matematiche, del network dei contatti tra le persone.
Come è nata l’idea?
“Durante il mio dottorato ho studiato l’epidemia di Sars del 2003. E lì ho notato le grandi fluttuazioni nella distribuzione dei contagi. E la loro grande eterogeneità. Ad esempio in Canada la Sars è arrivata quasi contemporaneamente a Toronto e Vancouver. Ma la sua diffusione nelle due città è stata molto diversa. Gli epidemiologi si sono chiesti: “Qual è la ragione di due esiti così diversi?”. Ed è a questo punto che i modelli di analisi del network dei contagi sono apparsi molto interessanti. Perché permettevano di modellare le diversità nel numero di contatti che gli infetti possono avere”.
Il vostro approccio ha degli svantaggi?
Coronavirus: “Il nostro approccio permette di arrivare a stime più precise, ma ha bisogno di più dati rispetto al semplice calcolo di R0. Non basta conoscere la media di persone che un positivo contagerà, ma bisogna ricostruire tutta la distribuzione dei contagi. E bisogna presupporre più cose, rischiando di sbagliare. Per questi motivi il modello “a rete” è difficile da usare nelle prime settimane di un’epidemia. E diventa invece più usabile quando sono stati raccolti più dati. Ad esempio con le app di tracciamento dei contatti. O comunque con i dati che vengono raccolti dal sistema sanitario quando una persona viene dichiarata positiva al Covid, ovvero chi sono i suoi familiari, quali altre persone potrebbe aver contagiato, e così via”.
Anche il parametro R0 non è molto affidabile nei primi tempi di un’epidemia, o perlomeno questa è una delle maggiori critiche a quel modello
“È una critica corretta, nello studio del Coronavirus: R0 è una media, e nei primi tempi di un’epidemia la distribuzione degli infetti nella popolazione è molto irregolare. In quello stadio l’epidemia è alimentata dai cosiddetti “super diffusori”, ovvero quei positivi che infettano un grande numero di altre persone. Anche se forse sarebbe più corretto parlare di “eventi di super diffusione”, perché in molti casi il problema è in quegli ambienti ristretti e poco ventilati dove si incontrano più persone, o comunque in quegli eventi dove si radunano masse di persone”.