Il dottor Giovanni Albertini e la dottoressa Giulia Rinaldi ci parlano di questa sindrome, che può definita come un esaurimento emotivo, a cui prestare particolare attenzione soprattutto durante la pandemia da Covid-19.
Burnout significa, letteralmente, bruciato. Tale termine, utilizzato per la prima volta in psicologia dallo studioso Freudenberger , esso lo usò proprio per descrivere la condizione di lavoratori che si ‘bruciavano’, a causa di una fatica a gestire lo stress lavorativo, con ricadute conseguenti sul loro lavoro, e sul loro benessere psicologico e fisico. Ironia della sorte, Freudenberger rilevava che i maggiori rischi li hanno le persone che hanno molto interesse per il proprio lavoro. La sindrome da burnout definita nell’ICD-112 come una sindrome risultante da una condizione di stress cronico sul luogo di lavoro, è caratterizzata da tre fattori principali:
- La sensazione di esaurimento delle energie;
- Sentimenti di negatività e di disinteresse verso il proprio lavoro;
- Una sensazione di inefficacia o di mancanza di capacità realizzativa.
La classificazione di questo tipo di sindrome è ancora molto dibattuta nel mondo degli studiosi di psicologia.
Infatti, per alcuni, si tratta solamente di una forma depressiva, tanto da non essere da essa distinguibile; per l’OMS, invece, la sindrome da burnout, va considerata come una condizione a sé stante, a patto che non sia distinta dall’ambito lavorativo. Per altri ancora, invece, può manifestarsi anche in contesti diversi da quello lavorativo appunto, come in ambito familiare, quando i genitori possano faticare a prendersi cura dei figli e si “brucino” nella loro mansione, o nel caso degli sportivi professionisti, che non riescono a mantenere il livello delle loro prestazioni. Generalmente se ne ha un alto riscontro nelle professioni cosiddette di ‘aiuto’, come medici e infermieri. Il dibattito aperto attorno a questo tema, tuttavia, non ci impedisce di poterne parlare, e di suggerire alcune modalità con cui sia possibile fronteggiarlo.