Sono i resti di 36 prelati, vissuti a Gangi, tra il 1700 e il 1800. Un team di ricercatori ha svelato molte cose, dalla loro dieta alla ragione per cui i corpi venivano mascherati.
Sono note soprattutto perché il loro volto è ricoperto da una maschera di cera, estremo tentativo di riprodurre i tratti facciali che avevano in vita. Ma le mummie custodite a Gangi, in provincia di Palermo, nella chiesa madre dedicata a San Nicolò di Bari, hanno molto ancora da dire. E lo hanno fatto attraverso lo studio finanziato nel 2015 da National Geographic, di prossima pubblicazione sulla rivista scientifica internazionale “Forensic imaging”, che ha coinvolto Ron Beckett e Jerry Conlogue dell’Università americana di Quinnipiac, protagonisti del programma “The mummy road show”, Mark Viner, dell’ateneo britannico di Cranfield, e Sahar Saleem e Ahmed Said, radiologi del Cairo impegnati a investigare le celebri mummie reali egiziane. La ricerca multidisciplinare, ha riguardato 36 mummie di prelati vissuti tra il XVIII e il XIX secolo.
“Si tratta di soggetti di età compresa tra i 42 e gli 81 anni. Questo – spiega Dario Piombino-Mascali, coordinatore dello studio e del Progetto mummie siciliane – giustifica l’esistenza di patologie degenerative, come l’artrosi, che si sposano con l’età avanzata della maggior parte dei soggetti analizzati. Abbiamo inoltre riscontrato quattro casi di malattia di Forestier, una condizione associabile al diabete di tipo alimentare, e vari esempi di calcolosi delle vie urinarie, che potrebbe essere indotta da obesità, eccesso di zuccheri e proteine animali”. Segni, insomma, di una dieta poco sana. Lo studioso spiega poi che sono presenti anche “fratture occorse in vita, come quelle alle coste, o lesioni al cranio, indici di patologie ben più serie. I campioni analizzati – afferma Dario Piombino-Mascali – sono mummie naturali e in due casi abbiamo rilevato evidenze di autopsie”.
Ma le mummie di Gangi hanno rivelato anche molto altro.
Ma le mummie di Gangi hanno rivelato anche molto altro: per esempio il metodo con cui all’epoca furono collocate all’interno della cripta, con pali di legno e il supporti di fil di ferro. Una serie di particolari, poi, induce a ritenere che, anche nell’ultimo luogo di permanenza terrena, l’attenzione al decoro e ai rapporti intrattenuti in vita con l’arte continuassero ad alleviare la solitudine dei prelati anche dopo il trapasso. Le maschere di cera, ad esempio, con quei residui di arsenico utilizzato probabilmente per colorarle; o quel piccolo cartiglio custodito in bocca da un defunto. O, ancora, quel collarino ecclesiastico fatto da un frammento di spartito musicale. Molte delle deposizioni di Gangi sono inoltre corredate da sonetti, che ne descrivono la vita e opere. E che non sempre sono risultati veritieri.
Uno, ad esempio, commemora il gangitano esponente dell’arcadia Giuseppe Fedele Vitale, vissuto nel Settecento e considerato da molti il più grande poeta dialettale dopo Giovanni Meli. Nel 1789 decise di porre fine alla sua vita buttandosi da una finestra. “Ma sulla mummia attribuita a lui – osserva Dario Piombino-Mascali – i raggi X non hanno rilevato fratture o traumi di alcun tipo, il che potrebbe significare che il corpo indicato con quel nome non sia quello del poeta”. Quello di Gangi è un patrimonio di informazioni, di cui la comunità ha grandissima cura. “Nel corso dello studio – conclude Dario Piombino-Mascali – sono rimasto piacevolmente colpito dalla disponibilità dei giovani collaboratori della parrocchia; studenti che si spendono con generosità affinché la sepoltura sia sempre fruibile. Un esempio virtuoso del fare comunità attraverso i beni culturali”.