Il traffico illegale asiatico

Il traffico illegale asiatico di fauna selvatica continua

Prosegue anche on-line il traffico illegale di animali

Il traffico illegale. Da quando è esplosa la pandemia di COVID-19 si è molto dibattuto sull’origine del virus. Da quel momento la lente d’ingrandimento di tutto il Pianeta si è focalizzata sul commercio di fauna selvatica, in particolare in Cina e nel Sud Est asiatico.

Per questo motivo un team coordinato da Vincent Nijman dell’Università di Oxford ha cercato di comprendere se e come la pandemia abbia avuto ripercussioni sul commercio di fauna selvatica.

Infatti, le notizie battute dalle agenzie internazionali ci dicono della messa in atto di restrizioni parziali nei mercati rionali in Asia ma andando in profondità si scopre che il traffico illegale esiste ed è quanto mai florido, terzo per importanza subito dietro a quelli di armi e droga.

Per i trafficanti sul web il Covid non esiste

I ricercatori dell’Università di Oxford hanno studiato il contenuto di oltre 20 mila post pubblicati su 41 gruppi Facebook. Col fine di comprendere e valutare gli effetti della pandemia sui vari attori del tragico commercio di animali selvatici.

Basti pensare che solo l’0,44% dei post menzionava l’esistenza del Covid (e relative contromisure o limitazioni) e che i lockdown nei vari Stati anziché frenare hanno addirittura rivitalizzato il commercio on-line degli animali. Che non sembra averne risentito in modo particolare. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sul numero di novembre di Environmental Research.

La passione per i mercati di animali selvatici

In un altro studio condotto ad Hong Kong e appena pubblicato da un team coordinato dal ricercatore Kwok è emerso da parte della popolazione un grande attaccamento per i mercati rionali di animali.

Le forti limitazioni alla mobilità imposte dalle autorità a causa della pandemia hanno indotto la popolazione di Hong Kong a rinunciare alla frequentazione di luoghi pubblici (93%). Tuttavia, la frequentazione più alta di luoghi esterni (30%), nonostante i rischi sanitari, è risultata essere quella dei mercati di animali selvatici. A cui una parte di popolazione, sembra proprio non voler rinunciare.

Occorre un profondo cambio di mentalità

L’intensa copertura mediatica e la pressione pubblica per vietare il commercio e il consumo di fauna selvatica nei paesi asiatici. Come Cina, Indonesia e Vietnam, possono contribuire a incoraggiare lo sviluppo di politiche governative in materia ma lo studio dell’Università di Oxford non mostra prove di un cambiamento nell’atteggiamento delle persone. Soprattutto on-line, dove il fenomeno negli ultimi dieci anni è risultato in forte crescita.

Anzi, limitazioni e divieti tesi a generare un cambiamento nei comportamenti delle persone hanno in realtà spesso sortito l’effetto opposto e innescato la crescita del traffico sommerso on-line.

La reazione psicologica ai divieti

Uno studio di Thomas Walters, pubblicato in questo periodo, ha dimostrato che il commercio di animali selvatici si muove in uno scenario complesso e incerto. Nel quale gli interventi devono essere mirati su ogni singola situazione, al fine ridurre l’impatto dei respingimenti psicologici e aumentare le probabilità di successo.

La maggior parte degli interventi volti a ridurre la domanda di fauna selvatica non si traduce ancora in importanti cambiamenti comportamentali. Ad esempio, Walters ha dimostrato che solo l’8% del pubblico di destinazione ha mutato il proprio comportamento in seguito alle campagne mediatiche sulla salute.

Il problema permane 

Questo significa che, a dispetto di una pandemia che sta rivoluzionando i profili economici del pianeta, il problema del traffico illegale della fauna selvatica merita risorse e attenzioni più specifiche. Nonché un lavoro intenso e duraturo per cambiare radicali tradizioni che al momento lasciano parzialmente i mercati rionali asiatici per mimetizzarsi sul web.

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