“‘L’italiano non è l’italiano: è il ragionare’, disse il professore. ‘Con meno italiano lei sarebbe forse ancora più in alto'”. Nella trasposizione cinematografica di “Una storia semplice”, Gian Maria Volonté ‘diventa’ Leonardo Sciascia, pronuncia questa battuta. E infligge all’orgoglio del magistrato un colpo mortale, dopo che quest’ultimo si era appena vantato dei ‘3’ affibbiati nel registro a scuola.
“La cultura umanistica in generale e la lettura dei romanzi – spiega all’AGI Paolo Squillacioti, curatore per Adelphi della nuova edizione delle opere dello scrittore siciliano – non serve per dare delle nozioni. Ma per formare gli stessi meccanismi del ragionamento. La materia intesa dal procuratore, come inutile orpello che disturba il percorso verso una professione era, invece, per Sciascia ciò che dà sostanza all’intero ragionamento. E quindi anche a un esercizio corretto della professione di magistrato o di qualunque altra professione. È, appunto, il ragionare. Gian Maria Volonté nel film è straordinario perché fornisce una inflessione particolare a quella battuta indimenticabile. Tra l’altro, nel film si atteggia quasi a Sciascia, che non ha mai avuto parte attiva nelle scelte dei registi che hanno tratto film dalle sue opere né sulla scelta degli attori. Anche se credo che la scelta caduta su Volonté non dovesse dispiacergli.”
Quello tra Sciascia e il cinema è stato un colpo di fulmine
“Teneva distinti i due linguaggi, quello del romanzo e quello del cinema.”, sottolinea Squillacioti, ma l’amore per il grande schermo nacque prima, quando era bambino.
“Il cinema – aggiunge – era un modo di evadere dalla realtà siciliana degli anni Venti-Trenta, piuttosto arretrata. Era uno spettatore assiduo, agevolato anche dal fatto che un suo parente lavorava in una sala cinematografica. Vedeva fino a due film al giorno, scriveva recensioni dando stellette, anticipando l’uso che viene fatto oggi dai critici. L’amore, come tutti gli amori, ad un certo punto finì.”
Scrisse anche diversi soggetti, che oggi sono raccolti nel volume “Questo non è un racconto” per la casa editrice di Roberto Calasso.
“Su proposta di Lizzani, un soggetto è ispirato alla vicenda di Serafina Battaglia, che decise di farsi vendetta usando lo Stato come vendicatore. Per un altro soggetto ho ipotizzato fosse quello frutto di un contatto tra lui e Lina Wertmuller. Invece, il terzo soggetto è più che altro un dialogo tra due personaggi sul soggetto da scrivere. Si tratta di una storia di mafia americana, e di un vecchio boss che dopo aver abbandonato i suoi giri criminali, rientra per una missione. E rievoca i propri ricordi. Il committente della storia è Sergio Leone, e la trama è quella di ‘C’era una volta in America’.”
Filologo e direttore dell’Istituto del CNR Opera del Vocabolario Italiano, Paolo Squillacioti lavora sulle opere dello scrittore di Racalmuto dal 2010. Undici anni di un lavoro, che prosegue seguendo procedure rigorose.
“Per i romanzi – spiega – ho esaminato i dattiloscritti dell’autore. Inoltre, ho esaminato le versioni che Sciascia anticipava su riviste e giornali. Quindi, li ho messi a confronto e ricostruito il testo cercando di ripristinarlo nel miglior modo possibile: operazione normale per tutti gli autori del Novecento. Ma che per Sciascia non era stata ancora fatta. Ho avuto il privilegio di aprire questa strada.”
E d’altronde, gestazioni di opere come “Il giorno della civetta” si rivelarono laboriose per lo stesso scrittore siciliano. “Sciascia – racconta Squillacioti – pensava a questo romanzo da molto tempo. La prima versione conteneva riconoscibilissime coperture del potere in un delitto di mafia: le funzioni del prefetto, del procuratore della Repubblica, del capo del polizia, disse, erano talmente evidenti che rischiava l’incriminazione per vilipendio. Dopo averlo terminato, lo riscrisse e velò le funzioni di coloro che coprono gli esecutori del delitto. Velò, ma non annullò. Nel romanzo vi sono piccoli elementi, che consentono di risalire a quelle autorità. Per cui è una velatura che a ben vedere non nasconde ciò che Sciascia voleva dire: la mafia si è servita per avere il controllo assoluto del territorio di coperture ad altissimo livello.”
Quanto agli scritti giornalistici, Sciascia stesso li raccoglieva e, di conseguenza “il confronto con i dattiloscritti ha consentito di recuperare alcuni elementi testuali da un lato. E di dimostrare, dall’altro, il percorso seguito dall’autore nella rielaborazione, mai ossessiva. Per qualcuno di questi libri come ‘A futura memoria’, c’è stato un lavoro molto più ampio. Perché c’era stata fretta nel farlo uscire appena un mese dopo la sua morte, ed è nata una nuova versione dei suoi scritti giornalistici più noti.”
Quel che arriva alla letteratura e alla politica italiana, da Leonardo Sciascia, è una nuova lingua: quella del ragionare
“A differenza di quella di Gadda, grande mescolatore di lingue parlate – rileva il filologo – Sciascia aveva una lingua standard. Ma con elementi in qualche modo arcaizzanti, che riprendevano moduli linguistici tardo ottocenteschi o primo novecenteschi. Si tratta di elementi peculiari, piallati dall’attività delle case editrici: ‘sopratutto’ senza una t. ‘Cosidetto’ senza la doppia d. A questi elementi lui teneva moltissimo, ma spesso venivano modificati. Aveva anche una sintassi particolarmente elaborata con elementi che derivavano dal siciliano, ma qualche volta semplificata nel lavoro redazionale. E ancora: concordanze a senso, con testo non perfettamente bilanciato. Dal mio lavoro è venuto fuori anche un restauro linguistico, di elementi grafici, in qualche caso morfologici, lessicali e sintattici.”
Il centenario di Sciascia cade nello 700esimo anno della morte di Dante Alighieri. Possiamo azzardare un paragone?
“Sono due figure difficilmente paragonabili – risponde Squillacioti, che di Dante è studioso -. Ma, volendo forzare, certamente sono due intellettuali che hanno posto la propria libertà al di sopra di ogni cosa. Dante lo ha pagato sul piano personale in maniera molto dura con l’esilio. E Sciascia con profonde incomprensioni finché era vivo e sapeva ben difendersi. Ma soprattutto quando non ha potuto più farlo direttamente. Inoltre, l’afflato civile è di entrambi: Sciascia riteneva che la letteratura avesse senso solo se poteva incidere sulla realtà. Nella Divina Commedia Dante è quasi uno scrittore militante.”
Quali titoli preferisce, di Leonardo Sciascia?
“Per quel che riguarda il romanzo, ‘Il Contesto- Una parodia’, con un sottotitolo che indica l’ironia con cui Sciascia penetra i meccanismi del potere. Per la saggistica, ‘Nero su nero’, raccolta di scritti molto brevi e penetranti, da cui si comprende la grande capacità di tenere insieme cose molto diverse. Tra i racconti-inchiesta, forma ripresa da Manzoni e portata da Sciascia alla massima espressione, ‘La scomparsa di Majorana’. E tutti i libri degli anni Settanta, il decennio a mio avviso più interessante e più innovativo.”, dello scrittore di Racalmuto.
“‘L’italiano non è l’italiano: è il ragionare’, disse il professore. ‘Con meno italiano lei sarebbe forse ancora più in alto'”. Nella trasposizione cinematografica di “Una storia semplice”, Gian Maria Volonté ‘diventa’ Leonardo Sciascia, pronuncia questa battuta. E infligge all’orgoglio del magistrato un colpo mortale, dopo che quest’ultimo si era appena vantato dei ‘3’ affibbiati nel registro a scuola.
“La cultura umanistica in generale e la lettura dei romanzi – spiega all’AGI Paolo Squillacioti, curatore per Adelphi della nuova edizione delle opere dello scrittore siciliano – non serve per dare delle nozioni. Ma per formare gli stessi meccanismi del ragionamento. La materia intesa dal procuratore, come inutile orpello che disturba il percorso verso una professione era, invece, per Sciascia ciò che dà sostanza all’intero ragionamento. E quindi anche a un esercizio corretto della professione di magistrato o di qualunque altra professione. È, appunto, il ragionare. Gian Maria Volonté nel film è straordinario perché fornisce una inflessione particolare a quella battuta indimenticabile. Tra l’altro, nel film si atteggia quasi a Sciascia, che non ha mai avuto parte attiva nelle scelte dei registi che hanno tratto film dalle sue opere né sulla scelta degli attori. Anche se credo che la scelta caduta su Volonté non dovesse dispiacergli.”
Quello tra Sciascia e il cinema è stato un colpo di fulmine
“Teneva distinti i due linguaggi, quello del romanzo e quello del cinema.”, sottolinea Squillacioti, ma l’amore per il grande schermo nacque prima, quando era bambino.
“Il cinema – aggiunge – era un modo di evadere dalla realtà siciliana degli anni Venti-Trenta, piuttosto arretrata. Era uno spettatore assiduo, agevolato anche dal fatto che un suo parente lavorava in una sala cinematografica. Vedeva fino a due film al giorno, scriveva recensioni dando stellette, anticipando l’uso che viene fatto oggi dai critici. L’amore, come tutti gli amori, ad un certo punto finì.”
Scrisse anche diversi soggetti, che oggi sono raccolti nel volume “Questo non è un racconto” per la casa editrice di Roberto Calasso.
“Su proposta di Lizzani, un soggetto è ispirato alla vicenda di Serafina Battaglia, che decise di farsi vendetta usando lo Stato come vendicatore. Per un altro soggetto ho ipotizzato fosse quello frutto di un contatto tra lui e Lina Wertmuller. Invece, il terzo soggetto è più che altro un dialogo tra due personaggi sul soggetto da scrivere. Si tratta di una storia di mafia americana, e di un vecchio boss che dopo aver abbandonato i suoi giri criminali, rientra per una missione. E rievoca i propri ricordi. Il committente della storia è Sergio Leone, e la trama è quella di ‘C’era una volta in America’.”
Filologo e direttore dell’Istituto del CNR Opera del Vocabolario Italiano, Paolo Squillacioti lavora sulle opere dello scrittore di Racalmuto dal 2010. Undici anni di un lavoro, che prosegue seguendo procedure rigorose.
“Per i romanzi – spiega – ho esaminato i dattiloscritti dell’autore. Inoltre, ho esaminato le versioni che Sciascia anticipava su riviste e giornali. Quindi, li ho messi a confronto e ricostruito il testo cercando di ripristinarlo nel miglior modo possibile: operazione normale per tutti gli autori del Novecento. Ma che per Sciascia non era stata ancora fatta. Ho avuto il privilegio di aprire questa strada.”
E d’altronde, gestazioni di opere come “Il giorno della civetta” si rivelarono laboriose per lo stesso scrittore siciliano. “Sciascia – racconta Squillacioti – pensava a questo romanzo da molto tempo. La prima versione conteneva riconoscibilissime coperture del potere in un delitto di mafia: le funzioni del prefetto, del procuratore della Repubblica, del capo del polizia, disse, erano talmente evidenti che rischiava l’incriminazione per vilipendio. Dopo averlo terminato, lo riscrisse e velò le funzioni di coloro che coprono gli esecutori del delitto. Velò, ma non annullò. Nel romanzo vi sono piccoli elementi, che consentono di risalire a quelle autorità. Per cui è una velatura che a ben vedere non nasconde ciò che Sciascia voleva dire: la mafia si è servita per avere il controllo assoluto del territorio di coperture ad altissimo livello.”
Quanto agli scritti giornalistici, Sciascia stesso li raccoglieva e, di conseguenza “il confronto con i dattiloscritti ha consentito di recuperare alcuni elementi testuali da un lato. E di dimostrare, dall’altro, il percorso seguito dall’autore nella rielaborazione, mai ossessiva. Per qualcuno di questi libri come ‘A futura memoria’, c’è stato un lavoro molto più ampio. Perché c’era stata fretta nel farlo uscire appena un mese dopo la sua morte, ed è nata una nuova versione dei suoi scritti giornalistici più noti.”
Quel che arriva alla letteratura e alla politica italiana, da Leonardo Sciascia, è una nuova lingua: quella del ragionare
“A differenza di quella di Gadda, grande mescolatore di lingue parlate – rileva il filologo – Sciascia aveva una lingua standard. Ma con elementi in qualche modo arcaizzanti, che riprendevano moduli linguistici tardo ottocenteschi o primo novecenteschi. Si tratta di elementi peculiari, piallati dall’attività delle case editrici: ‘sopratutto’ senza una t. ‘Cosidetto’ senza la doppia d. A questi elementi lui teneva moltissimo, ma spesso venivano modificati. Aveva anche una sintassi particolarmente elaborata con elementi che derivavano dal siciliano, ma qualche volta semplificata nel lavoro redazionale. E ancora: concordanze a senso, con testo non perfettamente bilanciato. Dal mio lavoro è venuto fuori anche un restauro linguistico, di elementi grafici, in qualche caso morfologici, lessicali e sintattici.”
Il centenario di Sciascia cade nello 700esimo anno della morte di Dante Alighieri. Possiamo azzardare un paragone?
“Sono due figure difficilmente paragonabili – risponde Squillacioti, che di Dante è studioso -. Ma, volendo forzare, certamente sono due intellettuali che hanno posto la propria libertà al di sopra di ogni cosa. Dante lo ha pagato sul piano personale in maniera molto dura con l’esilio. E Sciascia con profonde incomprensioni finché era vivo e sapeva ben difendersi. Ma soprattutto quando non ha potuto più farlo direttamente. Inoltre, l’afflato civile è di entrambi: Sciascia riteneva che la letteratura avesse senso solo se poteva incidere sulla realtà. Nella Divina Commedia Dante è quasi uno scrittore militante.”
Quali titoli preferisce, di Leonardo Sciascia?
“Per quel che riguarda il romanzo, ‘Il Contesto- Una parodia’, con un sottotitolo che indica l’ironia con cui Sciascia penetra i meccanismi del potere. Per la saggistica, ‘Nero su nero’, raccolta di scritti molto brevi e penetranti, da cui si comprende la grande capacità di tenere insieme cose molto diverse. Tra i racconti-inchiesta, forma ripresa da Manzoni e portata da Sciascia alla massima espressione, ‘La scomparsa di Majorana’. E tutti i libri degli anni Settanta, il decennio a mio avviso più interessante e più innovativo.”, dello scrittore di Racalmuto.