Prevedere con precisione come il singolo positivo reagirà al Covid è fondamentale per organizzare per tempo le terapie intensive e somministrare cure.
Identificare in anticipo i pazienti che rischiano di soffrire della forma più grave del Covid-19, e quindi di avere l’esito più infausto, è cruciale. In primis per organizzare per tempo le terapie intensive. In secondo luogo – quando l’Ema concederà l’autorizzazione – per somministrare cure che, come gli anticorpi monoclonali, sono efficaci e ad azione immediata (in quanto non bisogna aspettare che il sistema immunitario del paziente faccia maturare in proprio degli anticorpi al virus).
Ma queste ultime cure costose, e quindi devono essere riservate ai casi più a rischio.
Come distinguere, quindi, chi rischia di più e deve essere curato con maggiore attenzione? A parte ciò che si è già appreso con l’esperienza – ed è stato confermato da più studi, oggi sono in via di sviluppo diversi nuovi metodi per rispondere a questa domanda così importante. Questo è ciò che spiega Giuliano Aluffi in un suo recente articolo pubblicato su Repubblica.
Differenze nella risposta immunitaria
Un primo criterio utile – parte di uno studio che però non ha ancora superato la peer review – è quello suggerito dai ricercatori dell’università di Cambridge. La prima autrice è l’immunologa italiana Laura Bergamaschi: “abbiamo esaminato 207 soggetti positivi al Sars-Cov-2 e li abbiamo confrontati con soggetti sani”, spiega. Lo studio ha rivelato “che i soggetti che si ammalano della forma più seria di Covid, quella che richiede il ricovero in ospedale, hanno una risposta immunitaria tardiva e un’infiammazione sistemica (ovvero che riguarda una pluralità di organi) già evidente quando compaiono i primi sintomi”, aggiunge Bergamaschi.
Altro indicatore, nelle fasi precoci, dell’infiammazione è il livello di neopterina nel sangue. Si tratta di una sostanza secreta dai macrofagi, cellule del sistema immunitario preposte ad inglobare i microrganismi invasori.
Un alto livello di neopterina nel sangue è indice di iperattivazione del sistema immunitario. In particolare, dei macrofagi: questi sono responsabili di una parte importante della risposta infiammatoria al Sars-Cov-2. E questo è un segnale che è già stato osservato nelle fasi precoci di infezioni virali come il dengue, l’epatite B, l’Ebola e l’influenza. Nel 2002 si riscontrò nei pazienti affetti da Sars, già nel giorno di comparsa dei sintomi, un livello di neopterina nel siero superiore alla norma. Mentre uno studio dell’Università di Goteborg mostra che nei casi più gravi di Covid la concentrazione di neopterina è doppia rispetto a quella dei casi meno gravi.
Il sangue rivelatore
Il sangue può aiutare i medici a predire quali pazienti, a tre giorni dall’ammissione in ospedale, potranno recuperare senza bisogno di ventilazione, e quali invece peggioreranno nelle due settimane successive richiedendo la terapia intensiva. Lo suggerisce uno studio pubblicato su eLife, che considera i cambiamenti nel sangue riscontrati in 982 pazienti Covid positivi in vari momenti del loro ricovero ospedaliero.
Altri due interessanti marcatori potrebbero aiutare, in fase di triage, a identificare i soggetti più a rischio. Il primo è stato individuato in uno studio recente dell’Istituto Humanitas di Rozzano. Si tratta della molecola PTX3, coinvolta nei meccanismi dell’immunità e dell’infiammazione e individuata come marcatore (facilmente rilevabile attraverso un esame del sangue) della severità del Covid.
La seconda molecola che potrebbe aiutare le decisioni del triage da Covid è la sfingosina-1-fosfato. Secondo uno studio del Policlinico di Milano e dell’Aeronautica Militare effettuato su 111 soggetti Covid-positivi, una bassa concentrazione di questa molecola nel sangue è associata al danno vascolare e a una disfunzionale risposta del sistema immunitario che determina un’eccessiva e persistente infiammazione. Anche in questo caso, un semplice esame del sangue all’accesso al pronto soccorso permetterebbe di individuare i pazienti più a rischio.
Granulociti
Per distinguere tra pazienti Covid-positivi a maggiore e minore rischio di aggravarsi si può anche misurare un altro parametro correlato al grado di infiammazione dell’organismo. Si tratta della concentrazione nel sangue di tre tipi di globuli bianchi: i granulociti neutrofili, i granulociti eosinofili e i granulociti basofili. Uno studio recente di ricercatori del Karolinska Institutet mostra che i casi di Covid più gravi sono associati ad una concentrazione sanguigna superiore alla media di neutrofili, e a un abbassamento degli eosinofili e dei basofili. Il numero di neutrofili, nel corso dell’infezione, dovrebbe progressivamente abbassarsi. O almeno così succede nei pazienti che si ristabiliscono.
In coloro che soffrono della forma più severa di Covid, infatti, la concentrazione di neutrofili tende a rimanere alta più a lungo. E l’infiammazione risulta quindi più duratura e dannosa per l’organismo.
Attenti a quel gene
La differenza tra chi avrà una forma leggera e chi una forma grave di Covid può dipendere anche dai geni. Lo suggerisce uno studio pubblicato a dicembre su Nature, la cui prima autrice Erola Pairo-Castineira dell’Università di Edimburgo. La ricerca evidenzia due componenti del rischio di mortalità: la suscettibilità alle infezioni virali (condizione particolarmente ereditabile); la propensione a sviluppare serie infiammazioni polmonari.
In particolare lo studio su Nature evidenzia il ruolo, predittivo per l’evoluzione della malattia, di due geni associati alle difese antivirali innate (i geni JFNAR2 e OAS) e di tre geni associati al danno polmonare derivante da infiammazione (i geni DPP9, TY2 e CCR2). Il gene CCR2, in particolare, promuove lo spostamento dei macrofagi verso i siti dell’infiammazione. E può essere quindi responsabile di un incremento dell’infiammazione, ovvero a un esito negativo della malattia.
Un ulteriore fattore genetico che può avere un ruolo nell’evoluzione della malattia è il gene IFNAR2. Questo ha un ruolo protettivo perché legato alle funzioni degli interferoni, importanti per la loro capacità di stimolare il rilascio da parte dell’organismo di componenti essenziali della risposta precoce alle infezioni virali. Si è visto che una perdita di funzionalità del gene IFNAR2 è associato alle forme più gravi di Covid-19 e di altre malattie virali.