Oscurato un canale di una testata giornalistica registrata. Google parla di errore, dopo la segnalazione di Repubblica. Ma è solo l’ultimo tassello in un crescendo di episodi che riguardano anche Twitter e Facebook.
Google ha cancellato un canale di una testata giornalistica registrata, YOU-ng, e de-indicizzato un’inchiesta giornalistica, che quindi ora è molto più difficile raggiungere. L’ha denunciato il direttore responsabile, Germano Milite, e il motivo risulta una segnalazione fatta a Google dal protagonista di quella stessa inchiesta, Matteo Pittaluga.
Google ha ripristinato ieri sera il canale dopo la segnalazione fatta da Repubblica, parlando di “errore”. Stamattina, per un’altra segnalazione analoga (da un socio di Pittaluga), Google ha però cancellato di nuovo il canale, anche se ha rimesso l’inchiesta sul motore di ricerca. Probabilmente Google rimedierà anche a questo errore, dato che tutto è avvenuto con le stesse modalità. Anche a gennaio il gigante di Mountain View ha ammesso un errore simile, per la sospensione dell’app del Manifesto sul Google Store.
Il caso You-ng
Nel caso di Young, Pittaluga ha presentato a Google richiesta di rimozione per violazione di copyright, a quanto risulta agli atti. YOU-ng ha fatto numerose inchieste su profili come quello di Pittaluga, che vendono corsi e consulenze per fare soldi (con facilità, dicono) con il digitale. Milite ha indagato su questo business che definisce sospetto e ingannevole per i potenziali clienti. “Con il pretesto infondato di violazione del copyright, Pittaluga ha ottenuto la censura della nostra inchiesta”, dice.
Google conferma a Repubblica: “Rivediamo periodicamente tutte le contro notifiche per violazione di copyright per identificare segnali di possibili abusi. Il canale di YOU-ng era stato chiuso nel corso di questo processo. Dopo un’ulteriore revisione, abbiamo rilevato che si è trattato di un errore e abbiamo prontamente ripristinato il canale. Ci scusiamo per l’inconveniente”.
Nel caso del Manifesto, a gennaio, Google aveva tolto l’app perché non si fidava che il Manifesto fosse un giornale (lo è da mezzo secolo) e in attesa di informazioni dal giornale che erano però presenti, come previsto dalla legge italiana (ad esempio su editore, collaboratori). In quegli stessi giorni, Twitter aveva sospeso l’account di Libero per 14 ore, per “attività sospetta”, senza dare a tutt’oggi spiegazioni (a quanto fanno sapere da Libero).
È recente invece un’interrogazione parlamentare del senatore Gianluigi Paragone (Gruppo Misto, ex M5S) contro quella che definisce censura del canale Youtube di Byoblu (testata giornalistica di contro informazione). Motivazione: “YouTube non tollera contenuti che diffondano disinformazione in ambito medico, in contraddizione con le informazioni fornite sul COVID-19 dalle autorità sanitarie locali o dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)”. Paragone ha fatto anche un ricorso all’Agcom (del 25 febbraio).
La situazione negli U.S.A.
Il tema è caldo anche negli Usa; soprattutto dopo che a ottobre 2020, Twitter aveva bloccato la diffusione di un’inchiesta del giornale filo-conservatore New York Post sul figlio di Joe Biden (attuale presidente Usa), prima di fare dietrofront. Secondo molti giuristi, la questione è ampia e tocca i diritti fondamentali. “Non c’è bilanciamento di poteri se è un solo soggetto, per giunta privato, a stabilire gli equilibri tra libertà di espressione e altri diritti”, come affermato dall’avvocato Guido Scorza (al Garante della Privacy). Un maggiore bilanciamento è necessario, secondo il Congresso Usa, che sta valutando da mesi nuove proposte normative; e lo è per la Commissione europea, che per casi come questo ha proposto il Digital Services Act.
“Se il pacchetto del Digital Services Act diventerà legge, potremo sporgere reclamo più facilmente contro le decisioni delle piattaforme; sapere perché la piattaforma le ha prese e opporvisi”, spiega Rocco Panetta, avvocato esperto di Privacy. Un’attività ora molto complicata e spesso costosa per gli utenti. Un’altra misura pensata per ridare agli utenti un maggiore controllo sugli algoritmi (e sui signori degli stessi). “Oggi i diritti fondamentali dei cittadini europei non sono adeguatamente tutelati online. Le piattaforme possono ad esempio decidere di cancellare i contenuti degli utenti, senza informare l’utente o fornire una possibilità di ricorso. Ciò ha forti implicazioni per la libertà di parola degli utenti”, ha scritto la Commissione nel presentare l’Act.