Ognuno ha il suo orologio biologico. Se l’ora che segna è molto diversa dai ritmi imposti dal lavoro, si crea una discrepanza che aumenterebbe il rischio cardiovascolare
I ritmi biologici
Quando si parla di cronobiologia si dice spesso che si è gufi; abituati ad andare a letto anche dopo la mezzanotte e a svegliarsi di conseguenza quando il sole è già alto, oppure allodole; con riposo sotto le lenzuola in prima serata e risveglio all’alba. Ma i ritmi biologici dell’organismo sono ben più complessi e non si limitano alla compagnia tra le braccia di Morfeo. Ed occorre rispettarli, anche nell’attività lavorativa. Altrimenti si rischia di mettere a rischio il cuore.
Dati alla mano
A dirlo, dati alla mano è una curiosa ricerca condotta in Portogallo presentata al congresso Esc Preventive Cardiology 2021, della Società Europea di Cardiologia. Stando alla ricerca, esisterebbe un’associazione tra alterazione dei ritmi biologici individuali legati al lavoro e rischio cardiovascolare. Considerando che in media, stando alle ricerche, un dipendente su cinque in Europa lavora in orari o turni non proprio classici, il tema va tenuto in grande considerazione in termini di prevenzione delle malattie cardiache, come raccomanda l’autrice dell’indagine, Sara Gamboa Madeira dell’Università di Lisbona.
La ricerca
La ricerca ha coinvolto circa 300 operai (33 anni l’età media, 56% maschi) addetti alla distribuzione in magazzino per una catena di vendita al dettaglio lusitana. Il lavoro era organizzato in tre turni nelle 24 ore, dalla mattina alle 6 fino alle 15, dalle 15 alle 24 e dalle 21 alle 6. In tutte le persone arruolate, oltre ai dati personali e sociali, sono state raccolte anche informazioni sui principali fattori di rischio cardiovascolare come eventuale presenza di ipertensione e valori del colesterolo.
Lo scopo e gli strumenti utilizzati
Poi si è passati a “misurare” il cronotipo di ogni partecipante allo studio, al fine di comprendere i ritmi dell’orologio biologico soggettivo. Si è utilizzato a questo scopo il questionario Munich ChronoType, anche per definire l’eventuale jet-lag sociale, quindi il disallineamento tra l’orologio biologico di un individuo e l’orario di lavoro. In base a questo parametro i partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: 2 ore o meno di disallineamento, 2-4 ore, 4 ore o più. Infine si sono valutati i punteggi di rischio cardiovascolare considerando fumo, pressione a colesterolo. Il rischio relativo varia da 1 (non fumatore con pressione sanguigna e colesterolo normali) a 12 (fumatore con pressione sanguigna e colesterolo molto elevati).
Il rischio
Un rischio relativo di 3 o più è stato considerato “alto rischio cardiovascolare”. Tra i partecipanti il 20% è stato quindi definito ad alto rischio e quasi quattro su dieci hanno dormito sei ore o meno nei giorni feriali. Il jet lag sociale è risultato di 2 ore o meno in quasi tre persone su cinque, mentre per il 33% del personale era di 2-4 ore e nell’8% di 4 ore o più. Risultato: con l’aumento del jet lag sociale è cresciuta la possibilità di trovarsi in gruppi a rischio cardiovascolare.
Le probabilità
Le probabilità di essere classificati ad alto rischio cardiovascolare sono aumentate del 31% per ogni ora aggiuntiva di jet lag sociale, anche dopo l’adeguamento delle caratteristiche sociodemografiche, occupazionali, dello stile di vita e del sonno e dell’indice di massa corporea. Secondo l’autrice dello studio “i risultati suggeriscono che il personale con orari di lavoro atipici potrebbe aver bisogno di un monitoraggio più attento per salute del cuore”. E forse, quando si definiscono i turni di attività, sarebbe importante anche considerare il cronotipo del singolo lavoratore. Per evitare che le allodole si trovino costrette a rimanere sveglie fino a notte inoltrata e che i gufi siano chiamati ad operare all’alba.