Al Teatro Massimo di Cagliari, in occasione della riapertura, è andata in scena la “Misericordia” di Emma Dante.
Ha debuttato martedì 25 maggio al Teatro Massimo di Cagliari l’ultimo spettacolo scritto e diretto da Emma Dante, Misericordia: un ritratto di famiglia contemporaneo, struggente e appassionato. La pièce si inserisce nella rassegna La Grande Prosa del CEDAC – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna ed è una produzione del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Biondo di Palermo, Atto Unico/ Compagnia Sud Costa Occidentale.
«Misericordia è una favola contemporanea. Racconta la fragilità delle donne, la loro disperata e sconfinata solitudine», dichiara la drammaturga siciliana presentando il suo ultimo lavoro, applaudito a più riprese dalla platea cagliaritana, evidentemente in visibilio dopo il fermo imposto dall’emergenza sanitaria. L’angoscia dell’attesa cede il passo alla gioia di ritrovarsi, finalmente, in sala. Dopo un periodo buio fatto di spettacoli annullati e rimandati a date da destinarsi, i teatri riaprono nel pieno rispetto delle normative anti Covid-19.
Comincia su queste note la favola contemporanea di Emma Dante: artista visionaria tra le più apprezzate del panorama italiano, capace di affrontare in modo audace temi scomodi, spesso scabrosi, che hanno contribuito a definire la sua cifra stilistica, in grado di permeare persino la miseria di autentica bellezza, grazie a un linguaggio scevro di morbosità e inutili moralismi.
Misericordia percorre le vie più buie dell’esistenza umana, fatte di degrado e violenza, dove le passioni si intrecciano alle trasgressioni e dove – nonostante tutto – riesce a farsi spazio l’amore per la vita. In un microcosmo semi-tragico, vivacizzato dalla parlata siciliana, tre donne: Anna (Leonarda Saffi), Nuzza (Manuela Lo Sicco) e Bettina (Italia Carroccio) vivono una doppia vita: di giorno lavorano a maglia e di notte si prostituiscono, impiegando i loro corpi, spogli soprattutto di pregiudizi, in pose e balletti seducenti per clienti viziosi.
Il richiamo all’onirico e ai ricordi della vita passata danno ritmo alle scene; il presente ritorna prepotente quando sul palco fa capolino Arturo (Simone Zambelli) con le sue movenze scomposte. Arturo è un disabile nato settimino da Lucia, mamma prostituta, e Geppetto, papà cliente-falegname. Le storie si intrecciano perché Lucia morirà mettendo alla luce il frutto delle violenze di Geppetto e lo lascerà in eredità alle tre amiche-colleghe, che se ne prendono cura come se fosse loro, al di là dell’averlo desiderato e della condizione miserevole in cui versano, perché in fondo i figli sono di chi li cresce.
L’infanzia rubata, tra eros e violenze, non è però completamente manchevole di tenerezze, per Arturo, cui le madri adottive riservano gesti d’affetto attingendo probabilmente dal loro stesso bisogno d’amore e qualche coccola extra fatta di giochi per l’infanzia, così che quel degrado, quei cuori inariditi dalle difficoltà della vita diventano ancora più umani. Il destino di Arturo – apparentemente condannato a vivere in un tugurio e nell’oblio esistenziale della sua spasticità – subisce una svolta quando le Parche improvvisate, che a modo loro hanno contribuito a proteggerlo dalle bruttezze del mondo, compiono un vero atto d’amore: lo affidano a un istituto che meglio possa provvedere a lui, squarciando ulteriormente il velo della sua fanciullezza.
L’analogia con Pinocchio, la favola di Collodi, risulta fin troppo facile: l’omonimia delle figure maschili che condividono anche la stessa professione e una maternità mancata sono solo due dei riferimenti possibili, ma in questo caso, il ciocco di legno che lavorato prende forma assume le sembianze di un bambino menomato dalle legnate del padre, la cui infanzia è segnata da un gesto tremendo che lo renderà orfano per femminicidio.
La scenografia è ridotta all’essenziale; il palco – quasi completamente sgombero – consente alle attrici e ad Arturo di percorrerlo a grandi passi, soprattutto durante i tanti momenti rievocativi di balli, proibiti e non, che tanto piacevano a Lucia che “abballava sempre p’i masculi”. Le luci di Cristian Zuccaro affettano il buio con colori tenui. Le musiche accompagnano e scandiscono le scene con motivetti allegri – che all’occorrenza richiamano il tempo spensierato dell’infanzia, come “Giro giro tondo” – o con melodie cupe, riservate alle sequenze più dense di pathos.
Emma Dante riscrive la favola al femminile, in chiave contemporanea, senza indulgere in facili giudizi, cucendole addosso i valori del sacrificio e della solidarietà tipicamente femminili, scegliendo di ambientarla in un angolo di sud vilipeso dal degrado, così che anche la questione dell’emarginazione possa ritagliarsi uno spazio all’interno di un’opera in cui tematiche di levatura sociale e antropologica subiscono la traslazione tipica dell’elevazione artistica.