Il sequestro del piccolo Luca Locci di appena 7 anni, prelevato dai banditi di fronte alla sua abitazione di Macomer, avvenne mentre giocava con i compagnetti.
Era il 24 giugno 1978. Le strade deserte e l’assenza di traffico per l’evento sportivo tanto atteso, la partita di calcio Italia-Brasile, avevano portato la maggior parte dei cittadini a rintanarsi nelle case o nei pubblici locali per assistere a quell’avvenimento, favorendo in questo modo la fuga dei banditi.
La famiglia Locci aveva trascorso la giornata al mare a Bosa, per poi rientrare a casa alla sera. La madre del piccolo, Paola, era appena salita a casa quando Luca, attardatosi con degli amichetti fuori da casa, venne rapito dai banditi.
Una volta resasi conto dell’accaduto, la madre diede l’allarme. Nessuno si era accorto o aveva visto nulla. L’intero paese, quella sera, era impegnato a seguire davanti alla tv la finale per il terzo e quarto posto della Coppa del Mondo in Messico fra Italia e Brasile.
Il papà di Luca, Franco, concessionario della Fiat e pilota automobilistico, quel giorno era lontano da casa perché impegnato in una gara a Macerata.
Quello di Luca Locci fu il secondo sequestro di un bambino in quell’anno. Ad aprile, infatti, l’undicenne Mauro Carassale, figlio di un commerciante di Olbia, fu rapito a Portisco.
Il fatto venne seguito con apprensione dall’intera opinione pubblica nazionale che rimase col fiato sospeso assieme alla famiglia fino al giorno del rilascio.
I ricordi
“Ho ancora nitidi i ricordi di quei giorni – ha raccontato Luca Locci, di recente ospite della trasmissione I fatti vostri, condotta da Giancarlo Magalli su Rai Due – un’esperienza che ha segnato me e la mia famiglia per tutta la vita”.
“Avevo sempre un cappuccio in testa che mi levavano per mangiare – ancora Locci in un’intervista a L’Unione Sarda – però loro erano sempre dietro e mi dicevano di non girarmi, perché se li avessi visti in faccia mi dovevano ammazzare. Mi davano da mangiare pane e Nutella. Dormivo all’aperto, sotto le stelle dentro un sacco a pelo adagiato in terra. Avevo sempre la armi puntate, la canna del mitra anche quando mangiavo per evitare che mi girassi. Avevo paura, la parte peggiore è stata il primo periodo, poi uno si abitua talmente a tutto che diventa normale anche il mitra. Uno di loro era un cane, non mi cambiava neanche l’acqua”.