Spopola sui social in queste ore l’hashtag “#100wears” a favore dell’abbigliamento sostenibile.
È un vero e proprio atto di accusa al nostro modo di acquistare capi di abbigliamento che poi indosseremo poco e niente, e ci invita invece a fare shopping in modo più consapevole, a vantaggio delle nostre tasche e della sostenibilità ambientale.
Il ragionamento logico di “#100wears”, ovvero indossare 100 volte, è ineccepibile. Se ciò che si acquista sarà utilizzato almeno 100 volte, allora la spesa sarà ponderata. Già nel 2020 il rapporto “Global Fashion: Green is the new black” ha evidenziato quanto l’industria della moda sia poco sostenibile. Solo in Europa produciamo 5,8 miliardi di tonnellate di prodotti tessili (11 kg a persona), per produrre una maglietta servono 2.700 litri d’acqua, per un paio di pantaloni possono fino a 7mila, e il tasso di riciclo è fermo all’1 %.
Il fast fashion è un argomento molto discusso negli ultimi tempi. Si tratta di un termine moderno usato dai rivenditori di moda per esprimere un design che passa rapidamente dalle passerelle e influenza le attuali tendenze della moda. L’aumento di consumo di vestiti sta contribuendo in modo significativo all’inquinamento causato dalla fast fashion. Oltre che all’aumento della quantità di tessuti scartati ogni anno.
Infatti, l’abbigliamento che viene gettato in discarica è spesso costituito da materiali sintetici o inorganici. Tali materiali impediscono a questi tessuti di degradarsi correttamente. L’accumulo di rifiuti nelle discariche del mondo sta causando effetti negativi sull’ambiente. In tutte le fasi della produzione tessile, gli ecosistemi acquatici, terrestri e atmosferici subiscono danni ambientali duraturi. Uno di questi effetti dannosi è il rilascio di gas serra nell’aria che inquinano i vari ecosistemi. Un altro fattore che contribuisce all’inquinamento atmosferico è causato dalla somma tra il trasporto globale e l’utilizzo di macchinari pesanti, che genera emissioni di biossido di carbonio.