Dalle maschere ancestrali alle giostre equestri, in Sardegna c’è una esplosione di eventi legati al Carnevale, con i suoi diversi volti.
Il carnevale in Sardegna ha mille volti affascinanti. Quello antico dei suggestivi carnevali barbaricini che, con le loro ancestrali maschere antropomorfe e zoomorfe, le vesti di pelli di capra, orbace e campanacci, rievocano riti misteriosi, danze propiziatorie e un rapporto stretto tra uomo e animale. Quello vibrante dei carnevali a cavallo, come la “Sartiglia” di Oristano, durante il quale i cavalieri devono infilare in corsa una stella di metallo, auspicio di buon raccolto, e quello di Santulussurgiu (“Sa Carrela ‘e nanti”) nei quali i cavalieri mostrano il loro valore, coraggio e abilità, sfidandosi in corse temerarie per il centro cittadino. Oppure quello irriverente di Tempio con il fantoccio di Re Giorgio processato e bruciato in piazza, senza dimenticare la simbologia dei travestimenti di Bosa.
La settimana del Carnevale gavoese
Il carnevale di Gavoi inizia il giovedì grasso, “jobia lardajola” (così chiamato perché in questa occasione si preparavano le fave con il lardo), con “sa sortilla ‘e tumbarinos”, il raduno di centinaia di tamburini. Gli strumenti sono costruiti interamente a mano con pelli di capre e pecore; anticamente si adoperavano anche le pelli di cane o d’asino. Per la realizzazione dei tamburi si riutilizzano i setacci per la farina o le forme in legno per il pecorino o i vecchi secchi di sughero usati per la mungitura e per cagliare il formaggio (“sos malùnes”) o i grandi contenitori per conservare il grano (“sos majos”).
Gli adulti e i bambini sfilano indossando il tipico abito di velluto e calzando scarpe chiamate “sos cosinzos” e “sos cambales”. Il corteo si snoda per le vie del centro del paese con i tamburi che suonano all’impazzata, accompagnati da “su pipiolu“, il piffero di canna, “su triangulu“, il triangolo di ferro battuto, “su tumborro“, una serraggia, strumento composto da una vescica di animale essiccata, rigonfiata come cassa di risonanza che viene fatta vibrare da una corda come se fosse un violino. Il carnevale di Gavoi pone la musica al centro della festa, non è importante il travestimento o il mascheramento, “su Sonu“, il suono, è la maschera.
Zizzarone
La notte di martedì grasso il fantoccio del re di carnevale, Zizzarone, viene bruciato per dare l’addio alla festa, a volte sul rogo finiscono anche i pupazzi che rappresentano la moglie Marianna Frigonza e il figlio Marieddu.
Il carnevale termina all’alba del mercoledì successivo, quando “sos intinghidores” con del sughero bruciato disegnano una croce sulla fronte dei partecipanti.
Il carnevale gavoese ha origini antiche, deriva probabilmente dai riti in onore di Dionisio, il dio delle forze vitali e del ciclo della natura che insegnò agli uomini l’arte di ottenere il vino.
Il suono delle campane, “su toku de sa ritiru“, segna la fine del carnevale e l’inizio della Quaresima.
Mamuthones e Issohadores
A Mamoiada, paese del centro della Barbagia, situato a poca distanza dal massiccio del Gennargentu e dal Supramonte di Orgosolo, il fascino e l’atmosfera del Carnevale attirano ogni anno migliaia di turisti.
Il carnevale di Mamoiada è uno degli eventi più celebri del folclore sardo. Le maschere tradizionali di questo carnevale sono i Mamuthones e gli Issohadores, che fanno la loro apparizione in occasione della festa di Sant’Antonio tra il 16 e il 17 gennaio, poi la domenica di carnevale e il martedì grasso.
Il carnevale di Mamoiada è uno degli eventi più celebri del folclore sardo. Le maschere tradizionali di questo carnevale sono i Mamuthones e gli Issohadores.
I primi, vestiti di pelli ovine, indossano una maschera nera di legno d’ontano o pero selvatico, dall’espressione sofferente o impassibile; sulla schiena portano “sa carriga“, campanacci dal peso di circa 30 kg, legati con cinghie di cuoio, mentre al collo portano delle campanelle più piccole. I campanacci, fino a non molti anni fa, venivano forniti in via amichevole da pastori che recuperavano i pezzi più malandati o li prendevano direttamente dal collo delle loro bestie. I “sonazzos” sono dotati di “limbatthas“, batacchi costruiti utilizzando le ossa del femore di pecore, capre, asini o altri animali. I campanacci ancora oggi sono realizzati con grande maestria da artigiani di Tonara, centro del Mandrolisai.
Gli Issohadores
Gli Issohadores indossano una camicia di lino, una giubba rossa, calzoni bianchi, uno scialle femminile, a tracolla portano sonagli d’ottone e di bronzo; alcuni portano una maschera antropomorfa bianca.
Un rito molto sentito del carnevale è la vestizione dei Mamuthones, compiuta da due persone. Dopo la vestizione i Mamuthones sfilano in gruppi di dodici, rappresentando i mesi dell’anno, guidati dagli Isshoadores che sfilano in gruppi di otto e danzano eseguendo passi di notevole difficoltà che devono essere imparati da bambini.
La sfilata dei Mamuthones e degli Isshoadores è una vera e propria cerimonia solenne, ordinata come una processione.
I Mamuthones
I Mamuthones, disposti in due file parallele, fiancheggiati dagli Issohadores, si muovono molto lentamente curvi sotto il peso dei campanacci e con un ritmo scandito dagli Issohadores, dando un colpo di spalla per scuotere e far suonare tutti i campanacci.
Gli Issohadores si muovono con passi più agili e all’improvviso lanciano la loro fune, sa soha, per catturare qualcuno degli astanti: i prigionieri per liberarsi dovranno offrire loro da bere.
Le maschere fanno la loro apparizione in occasione della festa di Sant’Antonio tra il 16 e il 17 gennaio poi la domenica di carnevale e il martedì grasso. Durante l’ultimo giorno, il martedì grasso, si può assistere alla processione della maschera di Juvanne Martis Sero trasportata su un carretto da uomini vestiti da “zios” e “zias” che ne piangono la morte cantando sconsolatamente.
“Carrasegare de Otzana”
Il carnevale di Ottana affonda le sue radici nel mondo sardo arcaico e nei suoi valori agropastorali, e perpetua una tradizione mai interrotta. È una delle ricorrenze più attese dalla popolazione che partecipa attivamente dimostrando un profondo senso di appartenenza alla propria cultura.
Le maschere descrivono, attraverso spontanee interpretazioni che si sviluppano in una sorta di canovaccio, personaggi, ruoli e situazioni della vita dei campi, quali l’aratura, la semina, il raccolto; la cura, la domatura, la malattia, la morte degli animali.
Il carnevale di Ottana affonda le sue radici nel mondo sardo arcaico e nei suoi valori agropastorali, e perpetua una tradizione mai interrotta. È una delle ricorrenze più attese dalla popolazione che partecipa attivamente dimostrando un profondo senso di appartenenza alla propria cultura.
Le maschere descrivono, attraverso spontanee interpretazioni che si sviluppano in una sorta di canovaccio, personaggi, ruoli e situazioni della vita dei campi, quali l’aratura, la semina, il raccolto; la cura, la domatura, la malattia, la morte degli animali.
L’elemento caratterizzante è dato dalle maschere dei Merdùles e dei Boes, ma anche di altri animali, quali Porcos, Molentes, Crapolos.
Sos Merdùles
“Sos Merdùles“, ossia gli uomini, i contadini, sono vestiti con mastruche (pelli bianche o nere) o con vecchi abiti della tradizione locale, hanno il viso coperto da maschere lignee, dai tratti spesso deformati, forse per raffigurare la fatica del lavoro e della vita nei campi. Procedono lentamente, ricurvi, portando sulle spalle “sa taschedda“, una sorta di zaino in pelle atto a contenere pane e companatico. Tengono con una mano le redini (“sas soccas“) cui sono legati i Boes, uno o più di uno, e con l’altra mano si appoggiano ad una sorta di bastone che usano anche per tenere a bada i Boes.
Parlano, si lamentano della loro sorte ed esortano spesso gli astanti a tenersi lontani dal pericolo: “appartadeboche po su voe” (allontanatevi perché stanno passando i buoi e può essere pericoloso). Talvolta il Merdùle è un uomo travestito da donna e rappresenta la difficoltà di una vedova nell’affrontare il lavoro dei campi, talaltra si può presentare con “sas soccas armugoddu” (le redini a tracolla), pronto a prendere al laccio, “issoccare”, i Boes che gli passano vicino. Procedono con passo claudicante, stanco e sgraziato.
Sos Boes
“Sos Boes” indossano pelli di pecora o abiti vecchi della tradizione locale e portano in spalla, a mo’ di bandoliera, una cintola, generalmente di cuoio, da dove pendono dei campanacci, “sonazas“, di lamiera e di bronzo. Sono tenuti dalle redini del Merdùle, il viso coperto da “sas caratzas“: maschere di legno intagliato con sembianze bovine, corna più o meno lunghe dove non è raro vedere infilate “sas gatzas” (una sorta di frittelle di semola impastata con l’acqua, fatta lievitare e fritta nell’olio bollente), due foglie che decorano gli zigomi e una stella che decora la fronte (la stella rappresenta, in realtà, il marchio distintivo di un vecchio artigiano locale ormai scomparso).
Procedono saltando a ritmo cadenzato dal suono dei campanacci, ogni tanto si fermano per inscenare una ribellione, buttandosi per terra o agitandosi e creando scompiglio tra la gente.
Sos Porcos e Sos Molentes
“Sos Porcos” e “sos Molentes“, maschere di maiale e di asino, sono presenti nel carnevale, ma in minor numero. Il maiale, vestito di pelli o altro, il viso coperto da una maschera lignea, è dotato di un solo campanaccio, come nella realtà della vita dei campi; chi lo conduce porta sempre con sé sa panastra, una sorta di stuoia di giunco sopra la quale si coricano i maialini per succhiare il latte dalla scrofa.
Su Cherbu, Su Crappolu e Sa Filonzana
“Su Cherbu” (il cervo) e “su Crappolu” (il capriolo) sono anch’esse maschere presenti nel carnevale, ma più rare.
“Sa Filonzana“, un uomo travestito da orrida vecchia: piegata dall’età, vestita di nero e con il volto nascosto da una maschera lignea, oppure colorato con la fuliggine che contrasta col bianco di una dentiera ricavata da una patata. Ha fra le mani il fuso, la conocchia e la lana, fila e predice un futuro più o meno prospero o infausto, a seconda della qualità del vino che le viene offerto. Oggi ha anche le forbici, alludendo alla Parca romana che recideva il filo della vita.
Sas Mascaras Serias
“Sas Mascaras Serias” (uomini e donne di tutte le età e condizioni) procedono saltellanti e con movenze di danza, vestite in modo eccentrico, vestite con abiti vecchi, lenzuola, copriletti e persino tappeti da tavolo, rappresentano lo spirito goliardico che capovolge il senso dell’esistenza; oggi indossano costumi preparati per l’occasione.
Il carnevale, che con le sue maschere per tre giorni impazza per le vie del paese, dalla domenica di quinquagesima fino al martedì che precede il mercoledì delle Ceneri, inizia in realtà la sera del 16 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, quando, dopo la funzione religiosa che termina con la benedizione del falò (“su Ogulone“) in piazza, le maschere fanno la loro prima uscita e si radunano intorno al fuoco.
È in questa occasione che il sacerdote consegna “s’Affuente“, un piatto di rame lavorato a sbalzo con motivi decorativi e una scritta in caratteri alemanni (si presume di origine celtica), utilizzato anche durante i riti della Settimana Santa (per la lavanda dei piedi e per riporre i chiodi che vengono tolti al Cristo il Venerdì Santo durante la cerimonia de “s’Iscravamentu“, deposizione dalla Croce). Il piatto in questa occasione diventa uno strumento musicale che, percosso verticalmente con una grossa chiave, dà il ritmo al ballo tipico di Ottana, l’antico “Ballu de s’Affuente“.
Altri strumenti musicali sono “s’òrriu“, un cilindro di sughero con la parte superiore ricoperta da un pezzo di pelle di animale dal quale pende una correggia che, intrisa di pece e fatta scorrere all’interno con la mano, produce un suono roco e prolungato che spaventa le bestie e disarciona i cavalieri; “su pipiolu“, uno zufolo realizzato con canna palustre.
Is Corongiaius di Laconi
Una tradizione legata alla festa di S. Antonio è quella di annerirsi la faccia con il carbone, rito legato al fuoco e all’inizio del Carnevale a Laconi e alla fine della famosissima festa di Sant’Antonio. Nell’occasione, infatti, fanno la loro prima uscita “Is Corongiaius“, le tipiche maschere carnevalesche laconesi.
Su Corongiaiu, il pastore ( il nome deriva dal toponimo Coròngiu, antico rione del paese che in passato era abitato dai pastori) svolge nella rappresentazione il ruolo dominante di guida. E’ una figura dai tratti ferini, caratterizzata da una grande maschera di forma cilindrica in sughero “su casiddu” alla quale si aggiunge un lungo naso, una grande bocca e una barba di pelle di pecora e di agnello; sul capo spiccano grandi corna di capra.
Su Corongiaiu con la mastruca estia de pedde
Su Corongiaiu veste la classica mastruca (estia de pedde), il caratteristico cappotto di lana di pecora bianca o nera, sopra il quale, a tracolla sono disposti una quindicina di sonagli che vengono fatti risuonare fragorosamente attraverso una danza ritmata. Sa Bestia, la bestia, è anch’essa vestita con la mastruca e rappresenta una figura dominata. Infine su Oe, il bue, la vittima predestinata, che indossa una maschera bovina e la pelle dell’animale e si muove in coppia con il Corongiaiu dal quale è trattenuto per la cintola con una fune “sa soga”.
L’animale si muove in modo frenetico per divincolarsi dal pastore ma, punto con il bastone (su strumbulu) e sferzato con la frusta, viene alla fine da lui sottomesso. Queste maschere, attraverso una rappresentazione coreografica suggestiva che si svolge per le vie del paese, ripropongono grottescamente con le loro movenze e ritmi, gli antichi riti agropastorali legati a culti preistorici e oggi diventano al tempo stesso simboli di identità culturale e divertimento.
Col Carnevale in Sardegna si potrebbe continuare all’infinito nelle sue mille sfaccettature da Tempio a Barì Sardo da Orotelli a Santu Lussurgiu fino ad arrivare a Cagliari in un viaggio ancestrale che mai terminerà.