La rilevanza del riconoscimento di genere è indiscutibile, il suo rapporto con la redistribuzione del lavoro rimane molto meno analizzato.
Oggi 8 marzo ricorre la Giornata internazionale dei diritti delle donne per ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in ogni parte del mondo. Ne abbiamo discusso in un’illuminante intervista con Ilaria Bonuccelli, annoverata tra le migliori esperte su donne vittima di violenze.
I pregiudizi sui limiti delle capacità delle donne.
Attualmente sta diventando particolarmente evidente che la costruzione sociale dei campi professionali è tracciata sulla base di pregiudizi sui limiti delle capacità delle donne nelle lotte di genere.
Un esame delle ricerche più rilevanti mostra subito che lo scarso apprezzamento delle professioni prevalentemente femminili non è dovuto al contenuto reale del lavoro. È vero piuttosto il contrario: ogni attività professionalizzata perde automaticamente lo status sociale nella gerarchia non appena viene svolta prevalentemente da donne, mentre c’è un avanzamento nello status se svolta dal sesso opposto. Il genere funziona nell’organizzazione della divisione sociale del lavoro come una misura culturale che determina la stima sociale dovuta a una particolare attività, indipendentemente dalla specificità del lavoro.
Solo questo meccanismo culturale, cioè la denigrazione (fondata naturalisticamente) delle capacità femminili di conseguire successo, può spiegare come sia possibile che, seguendo l’interpretazione da parte della società delle proprie premesse, le attività delle donne che riguardano i lavori domestici e la cura dei bambini non siano de facto concepite come “lavoro”. E lo stesso meccanismo deve essere invocato per spiegare il motivo per cui c’è sempre una decisiva perdita di status quando una professione si sposta dal genere maschile a quello femminile.
La legittimazione del sistema di distribuzione sociale e la redistribuzione economica
Tutto questo mostra quanto la legittimazione del sistema di distribuzione sociale sia in debito nei confronti delle interpretazioni culturali dei contributi alla riproduzione sociale da parte dei diversi generi. Non solo quali attività possono essere considerate “lavoro”, e quindi avere requisiti validi per la professionalizzazione, ma anche quanto alto sia il livello di prestigio sociale per ogni attività professionalizzata è determinato da griglie di classificazione e da schemi di valutazione ancorati profondamente alla cultura della società.
Se si considera che, alla luce di questo risultato, anche le esperienze di ingiustizia sono generalmente causate dall’applicazione inadeguata o incompleta di un principio di legittimazione prevalente, si giunge a una tesi adatta, a interpretare le lotte per la distribuzione nell’ambito della società: tali conflitti assumono caratteristicamente la forma dei gruppi sociali, in risposta all’esperienza del disprezzo nei confronti dei loro successi reali, cercando di porre in questione i modelli di valutazione stabiliti lottando per una maggiore stima dei loro contributi sociali e, perciò, per la redistribuzione economica. Così, quando tali conflitti non chiamano in causa i diritti sociali, le lotte per la redistribuzione sono definibili come conflitti sulla legittimità dell’attuale applicazione del principio della realizzazione.
L’influenza dei modelli culturali
Ora, la pretesa di universalità di questa tesi potrebbe apparire sorprendente, dal momento che, finora, si è mostrato quanto forte sia l’influenza dei modelli culturali di valutazione nei confronti della distribuzione basata sullo status di appartenenza, solo nel caso della divisione del lavoro fondata sul genere. La lotta di genere per la valorizzazione sociale dei lavori domestici “femminili” è, finora, l’esempio più chiaro di come, nell’ambito della struttura teorica del principio della realizzazione, la redistribuzione sociale possa essere realizzata principalmente attraverso la delegittimazione delle valutazioni prevalenti della realizzazione. Quando minacciate dalla perdita di status le donne possono rispondere solo in due modi: o entrando esse stesse nel mercato del lavoro o “lottando per il riconoscimento sociale della loro attività di riproduzione nella famiglia come lavoro sociale degno di egual considerazione” (Kreckel 1992).
Se si generalizza questo vivace esempio a livello sociale e si tramuta nel paradigma delle lotte per la distribuzione, è possibile cogliere la logica argomentativa della maggior parte di tali conflitti: molto spesso, un’attività già professionalizzata o anche non regolamentata deve essere presentata simbolicamente in una nuova luce, cioè, in un nuovo orizzonte di valore, per stabilire che il sistema di valutazione istituzionalizzato è parziale o restrittivo, e così che il sistema stabilito di distribuzione non possiede sufficiente legittimità secondo i suoi stessi principi.
Un processo conflittuale di negoziazione
La vera entità di tali lotte emerge, comunque, solo quando si considera, allo stesso tempo, che la questione di come adattare il concetto di stima a tali attività costituisce l’oggetto di quotidiano conflitto nella riproduzione della divisione odierna del lavoro. Non solo la “giusta” valutazione, ma anche la demarcazione e la connessione fra attività, nel settore industriale o in quello dei servizi, nell’amministrazione o, ancor di più, nella famiglia, sono sempre soggette a un processo conflittuale di negoziazione, dal momento che non vi è modo adeguato di ancorarle a qualcosa come un sistema neutrale rispetto al valore, puramente tecnico e funzionale.
Questi sono conflitti distributivi proprio perché la redistribuzione di beni materiali è direttamente o indirettamente connessa agli esiti di tali conflitti, anche se in un senso meno evidente e politico. Ma ovviamente, questi conflitti onnipresenti diventano “lotte di genere” in un senso più eminentemente politico solo quando un numero sufficientemente ampio di donne si riconcilia per convincere il più ampio numero di persone dell’importanza della propria causa, ponendo perciò in questione il sistema di status prevalente nel suo complesso.
La violenza Economica
Ben 20.000 le donne vittime di “violenza economica”, vale a dire donne che vorrebbero colmare le loro lacune nell’ambito della finanza personale ma non possono farlo perché il partner non lo permette. L’indagine condotta per Facile.it da mUp Research e Norstat in Italia, e realizzata su un campione rappresentativo della popolazione femminile nazionale, ha messo in luce come ben due rispondenti su tre si sentano impreparate sui temi della finanza personale e, nonostante molte dichiarino di voler essere più pronte, non sempre è possibile.
Tra i limiti alla preparazione ci sono soprattutto l’assenza di tempo (54% del campione) o di adeguate risorse economiche (44%) per formarsi. Il 36% delle donne ha detto di considerare la finanza personale un argomento troppo difficile, il 20% ha semplicemente risposto di non essere interessata alla materia e, se si guarda alle donne che vivono insieme ad un partner, emerge che il 12% ha ammesso di non interessarsi perché se ne occupa l’altra metà.
Ascoltate l’intervista a Ilaria Bonuccelli