Dopo anni di querelle il Consorzio per la tutela del Formaggio Pecorino Romano Dop, prodotto quasi interamente con latte sardo, perde in cassazione contro il marchio “Cacio Romano” prodotto nel Lazio, con latte vacino laziale.
Tra il Pecorino romano Dop e il Cacio romano non c’è rischio di confusione, i due formaggio sono diversi, come diversa è la loro denominazione, quanto al termine romano che li accomuna è solo l’indicazione della provenienza senza alcun carattere distintivo. Dopo anni di querelle il Consorzio per la tutela del Formaggio Pecorino Romano Dop, prodotto quasi interamente con latte sardo, perde in cassazione contro il marchio “Cacio Romano” prodotto nel Lazio, con latte laziale. Quest’ultimo potrà dunque continuare a essere commercializzato con il suo nome.
Per la Suprema Corte
Per la Suprema Corte, non c’è, infatti, come sostenuto dal Consorzio, il rischio che i consumatori possano confondere i due prodotti, radicalmente diversi oltre che per le proprietà organolettiche, anche perla totale assenza di similitudine fonetica. In più il “Cacio Romano” è registrato dal 1991 mentre la Dop del “Pecorino Romano” è riconosciuta dalla Commissione Europea solo nel 1996. Non è dunque passato il ricorso del Consorzio, sostenuto dai produttori di latte ovino sardo, contro la Formaggi Boccea che produce il Cacio Romano, supportata dalla Regione Lazio e dalla Coldiretti del Lazio.
La Cassazione ha confermato la Corte di Appello di Roma
La Cassazione ha confermato la Corte di Appello di Roma che nell’ agosto 2018 ribaltò il primo grado che – invece – aveva inibito l’uso del marchio Cacio Romano in una guerra senza esclusione di colpi che portò anche al sequestro delle forme in giacenza e vendute dal caseificio della capitale. In quell’occasione la Corte territoriale aveva valorizzato anche le diverse caratteristiche dei due formaggi ritenendo il Pecorino Romano «come un formaggio aromatico e piccante, stagionato (a pasta dura o cotta), impiegato essenzialmente come formaggio di grattugia, prodotto con latte di pecora, mentre il Cacio Romano come formaggio dolce, semistagionato, che richiama la caciotta a pasta molle di latte anche vaccino (riconducibile quindi alla mucca) che non si può grattugiare ed è quindi impiegato solo come formaggio da tavola».
Mentre per il ricorrente i due formaggi sarebbero almeno in parte sovrapponibili, «il Pecorino Romano Dop ed il Cacio Romano sono formaggi dalle caratteristiche simili, potendo anche il primo essere servito come formaggio da tavola (non solo essenzialmente da grattugia) ed avere media stagionatura, mentre il Cacio Romano può avere una stagionatura più prolungata che ne determina una pasta piuttosto compatta ed un sapore deciso ed intenso (analogamente al Pecorino)». Per la Cassazione la valutazione centrata però è quella della Corte d’Appello. Corretta la decisione dei giudici di appello di respingere la domanda del Consorzio finalizzata a far dichiarare la nullità del marchio Cacio Romano in virtù della tutela Dop.
Normativa comuniaria
Nel caso esaminato non è, infatti, applicabile la normativa comunitaria che disciplina la Denominazione di origine protetta perché la Dop è stata concessa solo nel 1996 mentre il marchio Cacio Romano era utilizzato fin dal 1991. Per usufruire della tutela giuridica apprestata alla sua appartenenza ad una Dop registrata – sottolineano i giudici di legittimità la ricorrente «avrebbe dovuto provare, essendo oggetto di contestazione, le caratteristiche organolettiche del Pecorino Romano che aveva documentalmente descritto nel “disciplinare” con una “registrazione” della DOP anteriore alla registrazione del marchio in conflitto, e, conseguentemente, dimostrare di aver chiesto la tutela con la DOP del “Pecorino Romano” anche nella diversa consistenza semistagionata (oltre che stagionata con pasta dura o cotta), e con il diverso sapore dolce (oltre che aromatico e piccante)».
L’uso del marchio Cacio Romano
L’uso del marchio Cacio Romano, rispetto al marchio collettivo Pecorino Romano è stato dunque «conforme ai principi di correttezza professionale». La Cassazione ha escluso che ci sia stato « rischio di confusione e di agganciamento parassitario in relazione alla radicale diversità dei prodotti».